FREE FALL JAZZ

A dispetto della fama di persona burrascosa e polemica, Matthew Shipp, pianista e compositore fra i più attivi negli ultimi vent’anni abbondanti di jazz, si è dimostrato amichevole e gentile nel rispondere alle nostre domande. Evidentemente, questa fama è immeritata: il newyorkese parla con disinvoltura della sua musica e oltre, scivolando fra passato e presente, jazz e… punk rock. In ogni caso, si tratta di un musicista molto importante e che, al solito, viene calcolato di striscio nel narcolettico ambiente nostrano. Visto il livello qualitativo della sua produzione più recente, l’errore è persino doppio.

‘The Conduct Of Jazz’ è un titolo forte, un po’ come dire “ora guardate come si fa”. Era la tua intenzione, o è solo un mio travisamento?
Penso che sia un’affermazione forte, in effetti, ma non stiamo cercando di dimostrare qualcosa alla gente. Siamo musicisti con una lunga carriera alle spalle, siamo sicuri di noi stessi, di chi siamo e cosa facciamo; continuamo a crescere senza alcun bisogno di insegnare niente, solo quello di essere semplicemente noi stessi. Ecco la cosa importante.

Hai un nuovo batterista, Newman Taylor Baker. Cosa ha portato alla tua musica?
Grazia, esperienza, competenza, maestria ed istinto ritmici, passione, conoscenza. Penso che le cose accadano sempre al momento giusto, quindi evidentemente era giunto per noi il momento di cambiare.

‘The Conduct Of Jazz’ e il precedente ‘The Root Of Things’ sembrano riassumere molti aspetti della tua produzione passata e riproporle attraverso il linguaggio jazzistico: episodi più liberi, altri più mainstream, accenni all’hip-hop, allo stride, al blues e a tutto quello che ci può essere in mezzo. Credi sia questa la tua dimensione contemporanea?
Sì, hai detto bene, è proprio questa. Oggi sento il forte bisogno di avere sempre qualche tipo di swing come riferimento, o almeno un forte centro ritmico. C’è sempre, nella musica che faccio ora, una pulsazione centrale che la tiene insieme, non importa quanto la si voglia definire o sembri libera.

Nel passato hai suonato con dei dj e con l’Antipop Consortium. Cosa è rimasto di quelle esperienze? Si riflettono in quello che fai oggi?
Si impara da tutto ciò che costituisce il tuo ambiente, visto che tutto è traducibile come linguaggio e informazione. Penso che sì, qualcosa sia avvertibile ancora oggi – può essere il modo particolare in cui sviluppo certe idee o il modo in cui lascio libere le risonanze. Ma in generale, ripeto, tutto quello che attraversi finisce per influenzarti.

Quando si legge un articolo su di te, spesso e volentieri salta fuori il nome di Cecil Taylor, tra l’altro in modo piuttosto superficiale. La cosa ti stufa?
Sì, sono veramente stanco di dover sempre leggere il nome di Cecil, anche se a onor del vero succedeva più negli anni ’90. Ho lavorato così duramente per creare un mio marchio personale, e oggi per fortuna succede di rado, però sì, mi ha stufato. Chiunque mi ascolti può rendersi conto che la mia musica e quella di Cecil Taylor provengono da percorsi molto differenti; in generale ora la gente, per fortuna, ascolta di più e mi lascia più spazio per essere me stesso.

Sei parte di una generazione di musicisti che ancora deve essere storicizzata, assieme a gente come William Parker, David S. Ware, Roy Campbell, per esempio. Cosa avete portato, secondo te, nella New York degli anni ’80?
E’ molto difficile da dire, per il fatto che ognuno di noi è arrivato sulla scena in momenti diversi senza conoscere gli altri e partendo da storie personali ancora più diverse. Quello che è certo è che la musica era figlia del tempo e quindi sarebbe stato impossibile per noi suonare come negli anni ’60 – nessuno può farlo, il contesto è ed era differente. William Parker, David Ware, io stesso non potevamo che essere così quando siamo arrivati, e saremmo stati molto diversi fossimo emersi negli anni ’60 o in qualunque altra decade.

Sono nato come fan del rock (metal e hardcore punk in primis), e ho sempre amato la figura di Henry Rollins, che ha spesso parlato del jazz al suo pubblico, riuscendo a “convertire” più di una persona. A te piace quel tipo di musica, e sapevi dell’interesse di Henry?
Sì, mi è sempre piaciuto il punk rock, l’ho seguito con attenzione, mi appassionava soprattutto il suo aspetto sociale. Molti amici della mia età ne andavano pazzi, inoltre per mia natura sono curioso e cerco sempre di scoprire nuove cose, anche molto lontane da quello che faccio.

Hai inciso due album col grande sassofonista Darius Jones. Ne farete altri?
E’ un vero piacere suonare con Darius, ed è sempre bello fare musica con persone più giovani, perché vedono le cose da un altro punto di vista. Non avendo lo stesso bagaglio di esperienze, arrivano magari alle stesse conclusioni ma secondo un percorso che non avresti mai immaginato. Penso che Darius sia destinato a grandi cose, è una mente musicale del più alto livello. Un altro disco? Perché no! Anche se per ora non c’è niente di programmato.

Ho molto amato dischi come ‘Pastoral Composure’ e ‘Cosmic Suite’. Come li vedi oggi?
La maggior parte della mia discografia è in duo o trio, ma quel quartetto fu una formazione davvero speciale. Ho sempre un’ottima opinione di quei dischi. Riascoltavo ‘Pastoral Composure’ proprio di recente, ripensando a Roy Campbell (il grande trombettista è scomparso nel 2014, nda): per certi versi, lo considero un vero passo avanti nella mia discografia.

Piani per concerti in Italia?
Non sono ancora sicuro, al momento sto definendo le date, ma un paio di possibilità ci sono.

(Intervista raccolta da Negrodeath)

Comments are closed.