FREE FALL JAZZ

  1. C’è un ampio dibattito sulla questione se il jazz rientri (o debba rientrare) nei crismi della “cultura alta”, se si tratti di un fenomeno pienamente riconducibile alla cultura popolare, se rappresenti un originale via di mezzo fra le due (un fenomeno midcult, per così dire) o, infine, se incarni una sfida ancora non del tutto compresa a qualsiasi classificazione in tal senso. Il rapporto fra jazz e sfera commerciale, a sua volta molto discusso, è strettamente collegato a quest’ultimo.
  2. È chiaro, quindi, che nel momento in cui il jazz iniziò a recidere i propri legami con il mondo dell’intrattenimento per offrirsi al pubblico come forma d’arte dotata di una dignità autonoma…
  3. Ciò che più sorprende è che il periodo fra gli anni ’50 e ’60 fu un periodo di straordinario fermento, non solo artistico (con la nascita e lo sviluppo del jazz “moderno”) ma anche politico e sociale (Movimento per i Diritti Civili, Black Power, contestazione studentesca ecc.).
    Per quanto riguarda il jazz, il passaggio fra queste due fasi è segnato dal superamento del periodo “pionieristico” delle origini e, come si è detto, dalla progressiva emancipazione del jazz dalla sfera del puro intrattenimento. Un passaggio su cui pesò l’influenza di circostanze storiche particolarmente complesse – Seconda Guerra Mondiale, Guerra Fredda ecc. – ma in cui fu anche lo stesso immaginario jazzistico a subire importanti trasformazioni, fino ad assumere la fisionomia oggi più diffusamente accettata.
  4. L’affermazione di alcuni solisti-simbolo, trasformati presto in altrettante icone della nuova musica, come Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Miles Davis e John Coltrane (per non citare che le figure più celebrate), rafforzò l’immagine del jazz come forma d’arte autonoma, recuperando e rielaborando, in questo processo, alcuni degli aspetti individualistici e prometeici della cultura romantica europea dell’800, che rinacquero così a nuova vita nel cuore di un periodo storico in cui la musica d’arte di matrice europea si allontanava sempre più dal grande pubblico.
  5. In questo quadro non c’era evidentemente spazio per le musiciste donne che, infatti, scomparvero quasi del tutto dalla scena per riemergere soltanto a partire dagli anni ’70, sulla spinta di altri (e altrettanto profondi) cambiamenti. Figure femminili carismatiche continuarono ad esistere e ad affermarsi in altri ambiti della Black Music, più legati alla sfera popolare (le grandi voci della soul music, ad esempio), ma non nel jazz strettamente inteso.

Ho riportato questi estratti da uno scritto che ho raccolto in rete (prima parte, seconda parte), per evidenziare la prova tangibile di come ancora oggi intorno al jazz circolino opinioni vetuste e discutibili, quando non del tutto erronee, come chiaro sintomo di un certo processo “de-formativo”  che è stato portato avanti per decenni in materia e al quale siamo ancora oggi fermi. D’altronde, citando Mark Twain: “Una bugia fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe.

Partiamo dalla prima affermazione. In realtà non c’è alcun dibattito in corso se non con se stessi, perché la questione nemmeno si pone. Il Jazz è emerso dalla cultura popolare a pieno titolo, come tante altre arti musicali e comunque ne ha sempre fatto parte. Non conosco niente di più popolare del blues, del gospel e del song americano, tre elementi che sono l’autentica spina dorsale di tutta la storia del jazz, sino ai nostri giorni. Il jazz non ha mai abbandonato le sue radici popolari, attingendovi tra l’altro anche abbondantemente oltre le origini: dal R&B al Soul, sino al Funk degli anni ’70  al rap e al hip hop più prossimi a noi, in un continuo interscambio linguistico. Di più. Il jazz ha attinto anche a culture popolari “altre”, basti pensare alle musiche caraibiche, l’afro-cubano, il samba e la bossa nova brasiliani, il tango argentino, il klezmer ebraico e si potrebbe continuare. Francamente non si capisce di che cosa si dovrebbe dibattere. Persino Ornette Coleman, il geniale pioniere del Free Jazz, aveva nella sua musica profonde radici popolari, che non ha mai abbandonato, per non parlare di Archie Shepp o Albert Ayler. La faccenda di scindere il jazz dal resto delle culture popolari americane e in particolare da quella africana-americana per inserirlo in una non meglio identificata ”cultura-alta” è esercizio capzioso, perfettamente inutile e persino profondamente sbagliato. Non se ne capisce la necessità. Qual è il problema? “Popolare” non è certo termine dispregiativo, molta musica accademica ha preso spunto dalla musica popolare e popolare non è certo sinonimo di commerciale. Cercare certo genere di nobilitazione è una forzatura che in definitiva non attribuisce al jazz alcun valore aggiunto. Pare più una necessità che sta nella testa di chi ritiene debba essere in qualche modo “sdoganato” per essere accettato da non si sa bene quali colte élite musicali. La musicologia accademica sostanzialmente se ne frega e sempre se ne è fregata del jazz, snobbandolo a più non posso. Sembra l’ansia di cercare di piacere ad una donna che non ti considera. Un comportamento da veri “nerd” insomma.

Mi piacerebbe poi sapere quand’è che “il jazz iniziò a recidere i propri legami con il mondo dell’intrattenimento per offrirsi al pubblico come forma d’arte dotata di una dignità autonoma”.

Io fondamentalmente direi MAI! Se si intende il periodo del Be-bop si sbaglia di grosso. Inviterei semplicemente a leggersi l’autobiografia di Dizzy Gillespie, forse quell’attimo più autorevole in proposito e dove spiega a più riprese che mai vi è stata una tale intenzione. L’affermazione tra l’altro implica che prima di allora il jazz non aveva una dignità autonoma come forma d’arte. Quindi Jelly Roll Morton, James P. Johnson e  Louis Armstrong suonavano senza avere autonomia e una dignità artistica? Vorrei capire certe asserzioni che sfiorano il paradosso su quali basi nascono e da dove provengono.

La terza affermazione parrebbe sottintendere che i neri in America non hanno lottato per i loro diritti politici e sociali prima degli anni ‘ 50 ‘- ’60. Altro stereotipo tipico venduto per decenni nel nostro paese che lascia intendere che la “lotta politica” (quella forse dei nostri sessantottini?) sia avvenuta solo nel periodo di nascita e affermazione del Free Jazz.  Quindi Duke Ellington, Louis Armstrong, Dizzy Gillespie, Charlie Parker cos’erano? Degli Zio Tom? Occorre come minimo saper contestualizzare il periodo storico. I neri americani per decenni hanno dovuto lottare per garantirsi la pagnotta e hanno dovuto sopportare ogni genere di sopruso e violenza per sopravvivere. Sui mezzi pubblici c’erano i posti riservati ai “colored”, ben separati dagli altri, non potevano entrare nei locali frequentati dai bianchi etc.etc. Dietro all’apparente bonarietà di “Satchmo” o di “Birks” c’era un modo per non far sapere i propri reali sentimenti e le proprie intenzioni all’uomo bianco. Un comportamento che risaliva sin dai tempi della schiavitù. Far finta di assecondarlo con sorrisi e ammiccamenti, lottare per l’integrazione in una società americana alla quale ambivano giustamente a parteciparvi in condizioni paritarie. Sono processi lunghi che certo noi non possiamo comprendere pienamente senza averli vissuti. Il jazz  visto come musica contro il “sistema americano” è un’idiozia inventata da vetusti ideologismi italici che nulla avevano e hanno a che fare con quella tradizione politica, sociale e culturale. Il jazz inteso come strumento di lotta politica è servito forse a qualche pseudo jazzista italico dei decenni passati per proporsi, non certo a Gillespie, Parker o John Coltrane e Ornette Coleman. Per quanto concerne poi l’emancipazione dal “puro intrattenimento” del jazz in quel periodo, ricadiamo nel discorso precedente e mi limito a stendere un velo pietoso.

La quarta affermazione riportata insiste sul concetto di jazz come forma d’arte autonoma, ma autonoma da chi o da che cosa? Dal resto della musica popolare americana? Io direi invece che il jazz non è mai stato autonomo e sta perfettamente dentro un certo bacino di musiche e di idiomi popolari da cui non si è mai distaccato. E’ una forma musicale profondamente “meticcia” e sempre lo sarà. E’ la sua forza. Peraltro vorrei capire se Frank Sinatra o Stevie Wonder posso o non posso considerarli “artisticamente autonomi” in quanto “collusi” con l’intrattenimento e la musica popolare. Sono discorsi privi di senso, perché nessuno negherebbe ai due citati una loro fortissima artisticità e pure una forte influenza sul jazz che ancora si sente oggi. Sono due figure che hanno segnato fortemente la musica del Novecento anche oltre i confini americani. Basterebbe andarsi a cercare cosa diceva Davis di Sinatra e cosa dicono le giovani generazioni di jazzisti, non solo afro-americane, di Stevie Wonder, uno dei compositori più proposti e suonati nel jazz contemporaneo, alla stregua di un novello Ellington o di Gershwin.

Infine, la faccenda delle donne che scomparvero dalla scena jazzistica (jazz inteso in un non meglio specificato ” senso stretto”, ma da chi? E quale sarebbe?) per un po’, sino all’avvento degli anni ’70 è un evidente fraintendimento. Qualche nome? In ordine sparso: Toshyko Akiyoshi, Carla Bley, Jutta Hipp, Dorothy Ashby, Marian Mc Partland, Shirley Scott, Barbara Carroll, Joanne Brackeen, oltre a Melba Liston e Mary Lou Williams. Per non parlare delle cantanti, che certo non si affermarono solo in ambito popolare e del Soul: Sarah Vaughan, Betty Carter, Carmen Mc Rae, Dinah Washington, Rosemary Clooney, Anita O’Day, Ella Fitzgerald, Shirley Horn, Sheila Jordan, Helen Merrill, Nina Simone, Alice Clark, Chris Connor, Abbey Lincoln, Jeanne Lee, Fontella Bass, Nancy Wilson e ne avrò certamente scordata qualcuna.

Abbiamo frainteso? Può essere, e magari non siamo in grado di comprendere la complessità di certi scritti per nostri chiari limiti intellettuali,  ma forse la realtà è un’altra e molto più evidente.
(Riccardo Facchi)

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