FREE FALL JAZZ

Il rischio in questi casi è di venire risucchiati dal gorgo delle frasi fatte e dei luoghi comuni: “un debutto impressionante”, “una sorpresa inaspettata”, “un talento destinato a fare strada”. In tanti anni di musica troppe volte abbiamo sentito queste frasi, molte delle quali a sproposito. Non è il caso del quartetto capitanato da Caterina Palazzi, però. La contrabbassista capitolina con ‘Sudoku Killer’ (pubblicato circa un anno fa da Zone Di Musica) fa centro già al primo colpo, mostrando una padronanza compositiva che le permette di unire sotto lo stesso tetto in maniera coerente un ventaglio di influenze quanto mai sofisticato, che al jazz (sarebbe sin troppo facile citare Haden – col Quartet West e non solo – ma il suo ascendente più d’una volta è tangibile, così come quello di Marc Johnson, almeno nei momenti più dilatati) coniuga impatto e suoni d’estrazione rock e tinge il tutto di atmosfere crepuscolari che sembrano uscire dalla colonna sonora di un film noir. Merito della buona riuscita va anche al notevole contributo dei musicisti che completano la formazione, dove spicca l’ottima prova al contralto di Danielle Di Majo (della quale ricordiamo il buon “Eccedere Di Blu” di circa un anno fa) , con la chitarra di Giacomo Ancillotto e la batteria di Maurizio Chiavaro a chiudere il quadrilatero: l’alchimia è quella delle grandi occasioni. Nonostante i numerosi consensi però Caterina sembra tutt’altro che intenzionata ad adagiarsi sugli allori: i lavori per bissare l’ottimo esordio già avanzano e anche qui il pericolo è di sfociare in frasi fatte, “prove del nove” e “promesse da mantenere”. Considerando che in occasione del primo capitolo le hanno portato fortuna…

Il sudoku è un insieme di numeri che possono incastrarsi in una sola ed unica sequenza per risolvere il gioco, una sorta di meccanismo perfetto: è questa anche la tua idea di musica?
Sì, in un certo senso c’è un parallelismo. Sono molto lenta nello scrivere i miei pezzi: nella mia testa devono essere perfetti. Specie quelli nuovi, che non hai ancora ascoltato, sono molto lunghi e formati da varie sezioni di tempi diversi. E sicuramente io cerco un equilibrio che sia in qualche modo impeccabile: devo capire in quel momento del tema quale sia la sola ed unica nota che ci può stare, proprio come nel sudoku c’è soltanto una soluzione che permette di risolverlo. Magari posso impiegare cinque minuti a comporre un pezzo lungo e poi passare due mesi a “capire” quelle due battute che non mi suonano.

Non temi che tanta meticolosità possa diventare un limite?
Cerco un equilibrio: facciamo temi scritti anche abbastanza lunghi, ma poi c’è spazio per le improvvisazioni. C’è un’ambivalenza, e questo è il jazz per me. Nelle varie parti dei temi giochiamo sui suoni, sul timbro, sulle dinamiche: insomma, la musica non è bella solo se improvvisata. Nel mio caso cerco di compensare le due componenti in modo che la parte scritta risulti dinamica, non statica.

‘Sudoku Killer’ in alcuni momenti ha un impatto quasi rock, non mi ha stupito quindi scoprire che le tue radici musicali fossero proprio quelle. Come sei arrivata al jazz?
Sono partita dal rock duro. Quando a 14 anni ho iniziato a suonare la chitarra facevo punk e grunge. Il mio gruppo preferito sono i Nirvana: ascoltando ‘Sudoku Killer’ un po’ si capisce che una parte di me che li apprezza c’è ancora. A un certo punto il rock ha iniziato a starmi un po’ stretto e ho iniziato ad apprezzare musica che dava maggior spazio all’improvvisazione. Jimi Hendrix è stato il tramite: era rockettaro per certe cose, ma poi andava oltre. A suonare solo due accordi con la chitarra cominciavo a sentirmi un po’ limitata, d’altronde mi piaceva studiare e quando inizi a diventare un po’ più bravino penso sia normale voler osare qualcosa di più. Da Hendrix poi sono passata a Coltrane, che nel jazz per me era quello con più “pompa” e volume: emotivamente è quello che può catturarti meglio se vieni dal rock, altrimenti il jazz tradizionale può sembrarti freddo e palloso. Dopo Coltrane mi sono appassionata al resto del jazz, e pensa che per un periodo iniziava a starmi stretto pure quello: sentivo un po’ la mancanza del ripetere sempre le stesse due note ma avere più possibilità di giocare coi suoni. Cominciando finalmente a comporre musica mia ho capito che si trattava dell’unico modo per avere in un solo colpo tutto quello che cercavo: dai Nirvana ai Red Hot Chili Peppers – Flea è un bassista fenomenale – a Mingus e Charlie Haden. Ho raggiunto un compromesso tra il jazz e il rock, in un certo senso.

Dalla chitarra al contrabbasso invece?
È stato un passaggio quasi obbligato. Io da piccola volevo suonare il basso: al ruolo di chitarrista, in primo piano a fare assolo, non ho mai ambito. A casa però c’era una vecchia chitarra di mio padre, che mi disse: “il basso non te lo compriamo, altrimenti fai come tutti i ragazzi della tua età e dopo due mesi ti stufi. Inizia a suonare la chitarra, poi se ti piace vediamo…” Così a 14 anni iniziai a suonare la chitarra e facevo lezione con mia cugina, che era più brava di me e mi aiutava: io non sapevo quasi niente di musica, ma comunque registravo delle idee, scrivevo dei pezzi rock preparandone anche le linee di basso. Verso i 20 anni mi resi conto che il conflitto era inconciliabile e non era quello il mio strumento. Dato che in quel periodo ero in fissa per il jazz tradizionale optai per il contrabbasso piuttosto che per il basso elettrico: fu amore a prima vista. Se scegli di suonare strumenti così grandi c’è qualcosa che ti attira e non sai nemmeno razionalizzare, anche perché non è una passeggiata: all’inizio ti sanguinano le dita, devi metterci lo scotch… Devi essere convinto. Io lo ero, anche perché non mi sarei potuta permettere di abbandonare dopo due mesi un contrabbasso da 1000 euro. Scegliere uno strumento piuttosto che un altro è una cosa irrazionale: ti puoi sbagliare. Io mi sono sbagliata, poi ho ripreso.

Il background rock ti ha influenzato anche nella configurazione del quartetto? Allestendo una formazione con una chitarra piuttosto che un piano, per esempio.
Assolutamente sì. La scelta di uno strumento elettrico come la chitarra invece che un suono acustico di piano è dettata dalle mie esigenze “rockettare”: senza distorsione per me non esisti! (Risate nda.) Anche io e il sax abbiamo cominciato a usare effetti.

Il disco è pervaso da atmosfere “noir” – non mi viene termine migliore, ma è per intenderci – che mi ricordano le colonne sonore di Angelo Badalamenti. Ti piacciono?
Moltissimo. Pensa che ultimamente ho rivisto Twin Peaks, capolavoro assoluto, e abbiamo iniziato a suonare circa un minuto del ‘Laura Palmer’s Theme’ come apertura dei concerti, dato che mi piace così tanto. In realtà sono cose che ho scoperto un po’ a posteriori: mi hanno ispirato molto i film francesi, ma da quando sono arrivata a Badalamenti ci trovo delle somiglianze. Magari non sono volute: vuoi perché mi hanno ispirato altre cose o perché, come le colonne sonore, anche la mia è musica che prova ad essere evocativa. I titoli e le storie che ci sono dietro rimandano a delle immagini che non ci sarebbe neanche bisogno di proiettare: se la musica funziona, ci pensa lei.

La maggior parte dei tuoi pezzi sono appunto legati a delle trame, riportate nel disco ed ispirate per lo più al cinema. Componi in funzione di queste ultime, o, al contrario, le prepari in funzione dei pezzi?
In realtà prima scrivo la canzone, però vengo sempre ispirata da qualcosa. Ti faccio un esempio: vado a Berlino a gennaio. Cinque o sei mesi dopo scrivo un pezzo, ma non è che dico “adesso scrivo di quella volta che sono andata…” Io lo compongo, poi mi rendo conto che mi ricorda qualcosa e ci “scopro” dentro la Berlino Est che ho visto mesi prima col suo muro crollato. Non è che prendo un film e scelgo di comporci un’ipotetica colonna sonora, così come non mi invento una storia da abbinare a un pezzo che non ho ancora composto. Quando scrivi hai qualcosa da dire: perché vuoi dirla? Perché magari ieri ti è capitata questa o quell’altra cosa, hai visto un film o un paesaggio… Sono due elementi correlati, non viene per forza prima l’uno e poi l’altro.

Il tuo esordio ha riscosso consensi un po’ ovunque: ti senti sotto pressione nel dovergli dare seguito?
Sperando di non sembrare presuntuosa, penso che il secondo disco sarà meglio del primo. L’unica cosa che temo di non riuscire a superare è la copertina: quella di ‘Sudoku Killer’ per me è davvero bellissima. Quest’ultimo è andato molto bene: siamo alla terza ristampa in un anno, che per un disco di jazz non è poco. Poi ha ricevuto tante ottime recensioni, secondo disco in Italia dopo quello di Bearzatti: è andato oltre tutte le mie aspettative. I pezzi nuovi però mi piacciono di più, sono molto più rock e psichedelici.

Volevo arrivare esattamente qui: quanto è importante l’evoluzione?
È fondamentale: la staticità nella musica non va bene. A me comunque piace il fatto di avere uno stile riconoscibile. Gli stessi Nirvana, che abbiamo appena citato, hanno avuto una sorta di evoluzione, il che non vuol dire che ‘In Utero’ sia più brutto di un altro, anzi. Poi un disco può piacere di meno o di più, l’importante è che l’evoluzione sia naturale e lo stile resti quello: fare troppe cose diverse insieme mi interessa poco. Nel secondo album si sentirà l’influenza di ‘Sudoku Killer’, ma comunque stiamo prendendo una piega diversa, anche perché sul primo ci sono pezzi che non mi rispecchiano più e non suono dal vivo. Non dico siano brutti, sono legata a tutte le canzoni che scrivo proprio perché ci metto tutto quel che ho da dire, solo che ormai li sento fuori dal nostro sound attuale.

Non trovi che il concetto di evoluzione nel jazz si sia un po’ perso? Fatte le dovute eccezioni, dopo le ultime grandi rivoluzioni degli anni ’50 e ’60 si è lavorato soprattutto di calligrafia e accademia.
Secondo me il jazz come corrente artistica è morta. Se la gente si mette semplicemente a riproporre musica, alla fine suona datata. Quel che puoi fare è prendere spunto da quella musica e conglobarla in altre cose. Se vuoi fare swing nel 2011 sei ridicolo, non ha senso. Per me il jazz non è che non abbia un’evoluzione, è una corrente che c’è stata, ma, come tutte le altre, ha un contesto storico, politico e sociale che non puoi ignorare. Le nuove proposte dovrebbero essere per forza contaminate, perché noi non veniamo dal jazz anni ’40 dei neri che erano costretti a subire discriminazioni: quella era musica nata in una situazione politica particolare. Loro avevano la sofferenza dentro e la esprimevano in quel modo, noi invece siamo ridicoli a suonare swing ai matrimoni facendogli il verso. È una musica che o la mischi a qualcos’altro o ha fatto il suo tempo.

Dove vuoi arrivare?
Io sono sempre stata molto ambiziosa sin da bambina. Ho imparato molto presto a leggere musica perché a 8 anni suonavo il flauto traverso in un coro giovanile, sono cose che ti rimangono. È stato però quando ho iniziato a suonare la chitarra che mi sono detta: “voglio diventare famosa”. Ovviamente voglio fare questo, sempre di più, sempre più ad alti livelli. Ci sto puntando tutto: penso che chi semina raccoglie e che i grossi sacrifici alla fine paghino. Da piccola dicevo di voler diventare famosa come i Beatles (risate nda.) Mi rendo conto che è un pochino troppo, anche perché non sono una cantante pop ma una contrabbassista jazz. E poi mi piace moltissimo stare sul palco: non perché voglio fare la figa, ma perché mi ci sento a mio agio. Spero di starci il più possibile. E che sia un palco grosso, con tutta la gente attenta ad ascoltare la musica. (risate nda.)

(Intervista a cura di Nico Toscani)

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