FREE FALL JAZZ

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Questo album è un po’ la summa di uno dei tanti “what if…” della storia del jazz, in particolare del “cosa avrebbe potuto fare X non fosse morto così presto”. Sonny Clark, pianista dallo stile bluesy e percussivo, figlio diretto di Bud Powell e Horace Silver, vantava pure notevoli qualità di arrangiatore e una solida esperienza di accompagnatore quando, nel 1957, potè finalmente esordire con il suo primo disco. Su Blue Note, per di più, casa discografica che avrebbe pure fatto di Sonny il suo house pianist, non fosse stato per i gravi problemi di tossicodipendenza. ‘Dial “S” For Sonny’ si inserisce autorevolmente nello scenario dell’hard bop, in quegli anni appena cominciato, in perfetto bilico fra il grintoso Miles Davis di ‘Walkin” e i contemporanei quintetti di Silver e Golson. La title track e ‘Bootin’ It’ ricalcano apertamente il modello del capolavoro di Davis del ’54: tre fiati nella frontline (Art Farmer, Curtis Fuller, Hank Mobley), un pezzo dal ritmo swingante a tempo medio seguito da un altro ad alta velocità, riff eccitanti e tanta immediatezza espressiva all’insegna del blues. (Continua a leggere)

Dall’immenso archivio della Ogun, grazie al lavoro di Hazel Miller, moglie dello scomparso Harry, riemerge questo documento dal vivo del 1979. Prezioso sicuramente dal punto di vista storico, meno da quello tecnico. Solo il sax è molto riconoscibile, la batteria è solo grancassa e piatti, il basso e il piano sono leggermente penalizzati; comunque resta il fatto che la potenza dei Blue Notes ripresa dal vivo era la loro migliore  espressione, non solo per la musica, ma per quella libertà di improvvisazione che negli album da studio era leggermente ingabbiata, come se il concerto fosse l’unico momento valido. Pronti e via: nonostante la registrazione penalizzante, come detto, il sax di Dudu Pukwana fa la parte del leone e il suono dei Blue Notes appare subito riconoscibile. Il loro modo di aggredire i canoni del jazz su un tappeto ritmico altamente eccitante, facendolo a brandelli e unendolo alla matrice africana, rimane e rimarrà il sempre loro marchio di fabbrica. Un esempio è il superlativo ‘Ithi Gui’, brano di apertura del disco, in cui il sax tagliente di Pukwana, dopo riff canonici, prende l’abbrivio verso vie più spericolate. (Continua a leggere)