FREE FALL JAZZ

Danilo Perez ormai non ha bisogno di presentazioni, dopo quindici anni di onorata militanza nell’ultimo splendido quartetto di Wayne Shorter e una produzione solista di tutto rispetto. ‘Panama 500′, appena uscito, non è “il solito disco”, perché celebra una ricorrenza tutta particolare, ovvero i cinquecento anni dello stato di Panama. Da lì il titolo e la particolare organizzione di un’opera d’ampio respiro che, nelle intenzioni, dovrebbe ricapitolare mediante suggestioni sonore la storia e la cultura dello stato del centro America, patria dello stesso Perez. La forze in gioco sono molte, a partire dal trio stabile di Danilo (Ben Street al basso e Adam Cruz alla batteria) passando per i compagni di battaglia alla corte di Shorter (John Patitucci e Brian Blade), fino vari percussionisti, un quartetto d’archi e un flauto. Jazz contemporaneo, folk panamense e musica classica sono dunque punti di partenza per un disco che parte carico di legittime aspettative, e purtroppo si risolve in un buco nell’acqua, o in un buco senza ciambella. I tre diversi linguaggi musicali infatti coesistono, ma procedono separati e raramente si uniscono in qualcosa che superi la somma delle parti. Anzi, la monotonia dell’insieme è incredibile se si pensa a cosa è stato in grado di offrirci Perez sinora. Va detto che pezzi come ‘Rediscovery Of The South Sea’ o la suite in tre parti ‘Canal Suite’ non sarebbero nemmeno male, se l’esecuzione non fosse così ingessata e pedante.

Sembra quasi che, preso dall’importanza della celebrazione, Perez abbia esagerato col ponderoso accademismo. Quando va bene, ‘Panama 500′ non vale la metà di un pezzo di Etienne Charles o Yosvany Terry (per citare jazz latino di livello superlativo), quando va male rievoca addirittura funesti spettri della third-stream che fu. Peccato.
(Negrodeath)

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