FREE FALL JAZZ

Questo lungo e bellissimo articolo di Marco Bertoli ci è stato concesso dall’autore (e amico). Apparve su Musica Jazz nel 2008, in occasione dell’ottantesimo compleanno di questo grandissimo artista. Visto l’abbaglio di ieri, pubblichiamolo oggi!

«Horace Silver è quel genere di artigiano (craftsman) di cui il jazz, come ogni forma d’arte, ha necessità per sostenersi. Questi artigiani, si parli di Don Redman, di Fletcher Henderson, di Count Basie, di Roy Eldridge o di Horace Silver, sono comparsi al momento giusto per interpretare il loro ruolo cruciale nello sviluppo della musica. Certo, senza gli Armstrong e i Parker a rinnovare il linguaggio, e senza i Morton, gli Ellington e i Monk e conferirgli una sintesi con la loro attività di compositori, il jazz languirebbe. Ma senza artigiani di forte personalità e creativi come Horace Silver fra i suoi solisti e i suoi compositori, non esisterebbe un linguaggio comune da rinnovare e nessuna affermazione di materiali che possano essere oggetto di sintesi».(1)

Horace Silver ha compiuto nel 2008 ottant’anni e purtroppo, come pare, non in buona salute; la sua ultima testimonianza discografica («Jazz Has A Sense Of Humor», Verve) risale a dieci anni fa. Celebrare Silver su Musica Jazz in quest’occasione ha dunque il senso di un omaggio affettuoso, prima ancora che doveroso, a una delle figure più amate del jazz moderno, in un momento in cui il lungo silenzio sembra averlo posto un po’ in ombra; ma è anche l’occasione per considerare la sua figura in rapporto alle vicende del jazz degli ultimi decenni.

Fra le sintesi storiche della figura di Horace Silver, quella di Martin Williams che apre l’articolo è forse la più nota, certo è la più citata. Dopo tanti anni, rimane la più esatta, con una possibile menda: a quasi quarant’anni da quando Williams scriveva, non risuona molto bene la definizione del pianista come «artigiano» (anche se la parola italiana non rende appieno l’inglese craftsman, che tiene anche dell’«artefice» o del «maestro» di bottega medioevale o rinascimentale). Ma questo termine, prudente più che limitativo, dev’essere interpretato secondo il momento in cui quelle parole venivano scritte, cioè nel pieno ciclone delle avanguardie jazzistiche storiche e di tutto ciò che a quelle si accompagnava. Accanto alle figure demiurgiche di Coleman, Shepp, Taylor, Ayler e all’ombra gigantesca e ancora incombente di John Coltrane, Silver si vedeva assegnata da Williams la qualifica di craftsman (sia pure a fianco di colossi come Morton, Henderson e Basie) a scopo classificatorio: e se oggi, trascorsa tanta acqua sotto i ponti, Silver ci appare artista tout court, quanto i tutti più o meno suoi coetanei appena ricordati, è proprio al loro paragone che egli si dimostra singolare, appartato; a chi l’avesse considerato nel vivo di quella temperie (1965-1970), sarà facilmente parso addirittura superato, tanto più in un momento in cui la sua produzione, sempre di alto livello musicale, segnava il passo.

Eppure, a suo tempo e modo, Horace Silver è stato davvero un innovatore, e qui si viene al punto espresso da Williams con sintesi brillante. Nei primi anni Cinquanta, momento di apparente stasi del jazz, quando si erano placati i furori del bebop e la placida marea pacifica della West Coast già si andava ritraendo, Silver innovò i materiali musicali del jazz, risalendone le radici (non per programma, ma spontaneamente) in due direzioni, come diremo meglio sotto: quella della tradizione jazzistica anteguerra: i pianisti, le big band dello Swing, e quella della tradizione popolare-folklorica: il gospel, il rhythm-and-blues, il blues urbano, gettando lì per lì le basi dell’hard bop e i semi di quella sua declinazione che sarebbe cresciuta pochi anni dopo, il soul jazz, due template del quale Silver propose già nel 1954: The Preacher e Doodlin’ (in «And the Jazz Messengers», Blue Note). A questi materiali, dapprima caratterizzati essenzialmente dalla struttura del call and response, Silver conferì quindi forme cangianti, di musicalissima fantasia, ma sempre contenute nei limiti della strumentazione e del linguaggio più classici del jazz moderno (Silver compositore è quanto di più lontano, per dire, da un George Russell). La favolosa sequenza discografica «Horace Silver And The Jazz Messengers», «6 Pieces Of Silver», «The Stylings Of Silver» , «Further Explorations» e «Finger Poppin’» (Blue Note, 1955-58) presenta l’ingegno compositivo di Silver in classici come Nica’s Dream, Ecaroh, Cool Eyes, Soulville, Señor Blues, The Back Beat, The Outlaw, Moon Rays, Pyramid, Sweet Stuff, Juicy Lucy (dove Silver progressivamente si stacca dall’estetica bop del tema veloce e nervoso) in un momento in cui, tolti alcuni esperimenti non bene invecchiati e il lavoro di John Lewis con il Modern Jazz Quartet, proprio la composizione era il punto critico del jazz.

Ciò che Silver non è mai stato, invece, è uno sperimentatore, qualcuno che, come Coleman, Coltrane, Davis, usasse il palcoscenico come laboratorio. Intento a perfezionare il proprio metodo compositivo, raggiunto molto per tempo quindi perfezionato, ma mai messo in discussione, Silver non ha poi più offerto al pubblico se non opere perfettamente compiute e rifinite con scrupolo insolito (proverbiale la sua ossessione per le prove). Questi caratteri ne fanno un esempio, raro nel jazz, di artista apollineo, tratto che Silver, adepto dell’astrologia, sicuramente riferirebbe alla Vergine, sua costellazione di nascita; e questo tanto più in un momento, fra gli anni Sessanta e Settanta, monopolizzato dall’espressività dionisiaca non solo degli uomini del free appena ricordati, ma anche da quelli dell’hard bop più avanzato, cominciando dal suo ex-sodale Art Blakey con i Jazz Messengers attraverso Jackie McLean, Miles Davis e Wayne Shorter per arrivare ad Andrew Hill (2). In una prospettiva storicistica, è stato possibile vedere in ciò un limite dell’estetica di Silver, ferma a un certo punto e incapace di superarsi, e notare la diversità del suo atteggiamento rispetto a quello, per esempio, di un altro outsider come Sonny Rollins, che a suo modo accolse le lezioni di Ornette e di Coltrane (nelle note a «Serenade To A Soul Sister»,1968, Silver delinea un suo «breviario di composizione musicale»: «Bellezza melodica, semplicità significativa, bellezza armonica, ritmo, influenze ambientali, ereditarie, regionali e spirituali»).

Il massimo aggiornamento di Silver nei tardi anni Sessanta consisté in un modalismo appena accentuato (in particolare nelle formazioni con Woody Shaw e Joe Henderson), in un uso più frequente dell’ostinato ritmico, nello scurirsi del colore generale e in pochi ritocchi di strumentazione in dischi come «Serenade to a Soul Sister», «In Pursuit of the 27th Man» (1972), «You Gotta Take a Little Love» (1969), dove la coda free nel pezzo omonimo ha un valore parodico; e quando il suo lavoro degli anni Sessanta sembra profetizzare il jazz di quindici-vent’anni dopo, come in «The Jody Grind» (1966), questo è solo perché quel jazz era tornato a rivolgersi al recente passato e a una delle sue sorgenti più vive: Silver, appunto. In tal senso, su queste pagine, ha argomentato incisivamente Stefano Zenni (3), osservando come, pur con tutto il suo lavoro volto ad articolare la forma dei pezzi – modificando il numero di battute delle sezioni, introducendo episodi secondari, intro, out-chorus etc – Silver non si sia poi praticamente mai staccato dalla forma-chorus, la forma a ritornello che è per il jazz quello che la forma-sonata è per la tradizione classica europea, preferendo, al sovvertimento radicale della forma, la sua elaborazione per estensione, secondo il principio della giustapposizione di episodi nel senso della varietà. È un limite, questo? Certamente pareva tale, fra gli altri, a Marcello Piras, che così scriveva nel 1979, recensendo un’esibizione romana di Silver: «Silver è un musicista folk, più che un artista consapevole della propria autonomia. La sua tecnica compositiva prevede solo combinazioni sempre nuove, e sempre fresche, di unità formali minime permutabili e caratteristiche (…). Al confronto di Silver, Art Blakey resiste meglio, perché la formula-Blakey ha conservato un qualche, sia pur limitato, margine di evoluzione interna, che ne ha prolungato la vitalità».(4)

Da parte sua, con caratteristico understatement, così spiegava Silver a Ben Sidran nel 1985: «La maggior parte dei gruppi arrivavano, suonavano il tema, facevano gli assoli, riprendevano il tema e stop. Io invece ho pensato di aggiungere un po’ di colori, di presentare la cosa in modo meno monotono (more uplifting) e più piacevole per chi ascolta. Sai, con un’introduzione e qualche interludietto qui e lì, magari uno shout chorus o un tag o altro» (5). Nell’attenzione alla presentazione, all’aspetto comunicativo della performance, è un carattere profondamente africano della musica di Silver, legata all’interazione con il pubblico-comunità e provvista a questo scopo di un forte valore narrativo: non per caso tante delle sue composizioni si presentano come ritratti di personaggi fra l’immaginario e il tipo: The Preacher, Sister Sadie, Psychedelic Sally, Filthy McNasty, Sanctimonious Sam, Juicy Lucy, Señor Blues… Piace infine ricordare come artisti quali Archie Shepp e Cecil Taylor abbiano citato Silver come esempio e addirittura come modello (del resto, quella di Silver è una delle pochissime influenze discernibili nello stile pianistico di Taylor: da lì gli vengono i violenti ed espressionistici accenti dislocati sulle ottave basse della tastiera, ma non solo), al punto che, in un’intervista con Alfred B. Spellman, Taylor ha voluto assimilare in modo molto significativo la devozione totale alla musica di Horace Silver a quella di un cantante come James Brown, il «padrino del soul», parti entrambe della medesima tradizione del popolo nero (6). Si può d’altra parte osservare come, in direzione opposta, Silver sia influenza netta anche sulle prime testimonianze discografiche di un Bill Evans, se si pensi a «Everybody Digs Bill Evans» (1958) o a certi suoi contributi ai dischi di George Russell degli anni Cinquanta.

Parliamo di Silver oggi, nel 2008, e la sua carriera ci appare esemplare per due ordini di motivi: storiografico, per aver incarnato in modo personalissimo certi caratteri del nuovo jazz della costa Est alla metà degli anni Cinquanta, di fatto segnando, con la sua archetipica collaborazione con Art Blakey negli originali Jazz Messengers, la nascita dell’hard bop; ed estetico, per aver inanellato nella sua prassi musicale, con evidenza quasi di manifesto, una serie di questioni cruciali di estetica musicale afroamericana. La questione delle radici musicali-etniche, innanzitutto, che Silver ha identificato nelle musiche delle chiese nere e, profeticamente, in quelle etniche del mondo e integrato nella sua musica assai prima di altri («Song for My Father», 1963, «The Cape Verdean Blues», 1965); e quella, che subito ne consegue, dei legami delle musiche afroamericane di volta in volta nuove con tutte quelle che nella tradizione le hanno precedute (la dibattuta questione del continuum storico africano-americano, nell’osservanza implicita di quello che si è voluto definire un canone) in una musica che, per esempio, nello stile pianistico ripete la tradizione classica (Wilson, Tatum, Basie, Cole, il boogie) e moderna (Powell) e in quello compositivo adatta, con sintesi poetica geniale, la meccanica delle big band Swing e la dialettica delle loro sezioni ai quintetti bop, come per primo ha osservato Martin Williams, e nel fare ciò tiene conto della lezione di un altro «grande inattuale» come Tadd Dameron, precoce adepto di alcune tecniche che saranno predilette dal Silver compositore e a cui Silver si ispirò espressamente nella ricerca di un «giusto mezzo» nell’arrangiamento, che potesse conferire ordine senza levare spontaneità. Ancora, la questione del rapporto del jazz contemporaneo – negli anni dai Cinquanta ai Settanta, almeno – con la cultura popolare statunitense in generale e con quella della comunità nera in particolare, attraverso un percorso non lineare hard bop-soul jazz-soul music. Alla luce di un’attenzione più precisamente musicale, i dischi di Horace Silver ci presentano in vivo la questione della forma e della composizione nel jazz; quindi la relazione della composizione con l’improvvisazione e con la personalità dei solisti, in una reciprocità per cui Silver, come Ellington, impiega solisti che possano contribuire al suo mondo poetico e li ricompensa poi con strutture musicali impegnative ma che indirizzano il solista, aiutandolo a esprimersi nel modo migliore.

Non va dimenticata poi un’altra marca importante della personalità di Silver, anche se è una che la maggior parte della letteratura riporta a titolo di colore quando non con irrispettosi toni di condiscendenza. Parliamo della spiritualità forte e sempre presente del musicista, che lo porta a identificare nel Creatore la sorgente della musica, e non in senso metaforico. Così ha precisato Silver a Len Lyons: «È un fatto della vita. Anche quando copiavo altri musicisti, cercando di imparare dal loro stile – in un certo senso ero posseduto da loro – attraverso essi la forza divina fluiva a un livello più alto di quello che io avrei potuto raggiungere (…). Oggi vi attingo più direttamente, dalla fonte principale» (7). A cominciare dai tardi anni Sessanta, questa religiosità sincretica ha preso a esprimersi in forme dall’apparenza naïf e, con il senno di poi, anche new age avanti lettera, culminando nel famoso-famigerato disco doppio «The United States of Mind» (1970) e, negli anni Ottanta, nella fondazione della casa discografica Silvetto, sorta di fondazione dedicata a un’ideale di musica spirituale e terapeutica. Qualunque cosa se ne voglia pensare, non se ne può mettere in dubbio la serietà morale, la stessa che ha sempre conferito a ogni aspetto dell’attività musicale di Silver una valenza etica («La cosa più difficile è fare le cose semplici. Quello che distingue gli uomini dai ragazzi è la profondità presente nelle composizioni: se siano potenzialmente longeve, o se invece siano scontate»). Ma per tutta la sua sapienza formale, Silver non si cura poi di trovare ragione dei suoi a volte complessi procedimenti tecnico-compositivi. Allo storico inglese Alyn Shipton che lo incalzava al proposito pochi anni fa, così rispose Silver: «La musica mi arriva essenzialmente per via telepatica, nel sonno; poi, quando mi alzo, scrivo quello che ho sentito. Mi sforzo di scrivere delle melodie orecchiabili, semplici da suonare, semplici da capire. Cerco di scrivere una musica (…) che abbia quella facilità e profondità che fa in modo che la gente la porti a casa con sé, cantandola» (8).

Horace Silver nacque il 2 settembre 1928 a Norwalk, Connecticut, in una famiglia origini composite che ne avrebbe in qualche misura determinato la personalità e la musica nonché l’aspetto, che, soprattutto in fotografia, non è etnicamente bene identificabile. Il padre era giunto negli USA da un’isola dell’arcipelago di Capo Verde, al largo del Senegal, allora e fino al 1975 colonia portoghese (il vero nome della famiglia è Silva, e il nome completo del pianista, Horace Ward Martin Tavares); la madre era di estrazione mista afroamericana e irlandese. Come il pianista ha ricordato anche nella recente autobiografia Let’s Get To the Nitty-Gritty (9), per tutta la sua infanzia e prima giovinezza la casa risuonò delle semplici musiche folkloriche di Capo Verde eseguite con il violino e la chitarra dal padre e dai suoi amici. Il pianista, comunque, intervistato da Mario Luzzi nel 1976 (10), ha ridimensionato sbrigativamente questa influenza ancestrale: «Ne sono stato influenzato pochissimo: solo i pezzi Cape Verdean Blues e Song For My Father rivelano quella influenza. Quella è una musica tipicamente folk, e non mi ha mai impressionato molto, da ragazzo. (…). La musica delle isole di Capo Verde (…) non è moderna come quella brasiliana: ha un carattere antico». Più feconda di spunti la risposta data ad Alyn Shipton che si domandava come un musicista nato e cresciuto nel New England avesse potuto assorbire le influenze blues e gospel che ne connotarono la musica fin dai primissimi anni di attività: «L’influsso del gospel? Beh, per quanto riguarda la mia formazione, la risposta è sì e no. Da bambino non frequentavo le chiese nere: mio papà era portoghese, dunque andavo alla scuola e alla chiesa cattoliche. Mia madre, però, era metodista e ogni tanto andavo in chiesa con lei e ascoltavo i canti. Credo comunque che la vera ragione per cui nella mia musica sono evidenti certe cose sia perché mia nonna abitava a un isolato di distanza da una sanctified church che dava direttamente sulla strada. Delle volte, nel passarci davanti, sentivo uscire quello swing e mi fermavo ad ascoltare. C’erano tamburelli, tamburi, un saxofono, a volte un trombone; io m’innamorai di quel genere di musica» (11).

Un’incancellabile impressione gli fece poi, verso i dieci anni, un’esibizione nella sua città dell’orchestra di Jimmie Lunceford. L’educazione musicale formale di Horace fu precoce ma limitata: iniziato alla tastiera da una parente che insegnava il pianoforte, il ragazzo continuò per qualche tempo sotto la guida di un organista di chiesa di Norwalk, un certo William Scofield, che Silver avrebbe più tardi indicato come il suo unico vero insegnante. Di fatto, il maestro rimase tanto persuaso della naturale disposizione del ragazzo per lo strumento da volerlo preparare per l’ammissione al conservatorio e da avergli già trovato, a quello scopo, un facoltoso sponsor bianco. Ma il cuore di Horace non era già più con i classici del pianoforte. Alle scuole medie aveva cominciato a suonare il sax tenore, col quale avrebbe continuato fino al termine delle superiori, dove si cimentò anche con il baritono. Con un sax fra le mani, l’amore che già da tempo nutriva per il jazz e per Lester Young in particolare si fece anche più forte. Non per questo Silver tralasciò il pianoforte; per il resto, completò da autodidatta la sua educazione musicale, con l’aiuto occasionale di qualche musicista più anziano che gli insegnò come arricchire («embellish») gli accordi, ma soprattutto con il sistema classico e irrinunciabile di trascrivere gli assoli dai dischi di Charlie Parker, Bud Powell, Dexter Gordon e, un po’ dopo, con una rilevanza particolare per il voicing degli accordi e la limpidezza della linea melodica, di Teddy Wilson, che citerà sempre come una delle sue ispirazioni pianistiche principali. Più nel dettaglio, interesserà sapere che un’influenza durevole nel pianismo di Silver la ebbe la trascrizione e la memorizzazione di un assolo del pianista Avery Parrish (1917-1959) in un disco inciso nel 1941 con l’orchestra allora popolare di Erskine Hawkins, che si esibiva alla Savoy Ballroom di New York. Si tratta di un blues, After Hours; come ha osservato David H. Rosenthal, «frasi tolte dall’assolo di Parrish e dal repertorio standard di frasette funky (funky licks) del blues e del boogie-woogie emergono in pezzi che pure non sono blues: un elemento dello stile di Silver, questo, che ebbe un impatto incalcolabile su altri pianisti alla fine degli anni Cinquanta. Incorporando materiale delle radici del jazz nella sua musica, [Silver] tramandò molte delle sue frasi preferite, che a tutt’oggi sono parte costitutiva del vocabolario del jazz» (12).

Se in seguito Silver ha citato espressamente Powell e Monk come «mentori», ha anche tenuto a precisare, nella già ricordata conversazione con Ben Sidran, che due altri mentori non meno importanti li avevano preceduti: Wilson, appunto, e Art Tatum, ma prima ancora, come osservato da Rosenthal, i pianisti del blues e del boogie-woogie e perfino, per sua ammissione, un pianista bianco associato al Dixieland revival e oggi noto solo agli specialisti, Art Hodes. «Ovvio che io non riuscissi a copiare Tatum dai dischi: troppo veloce. Di Teddy Wilson copiai qualcosa (…); comperai anche un paio di trascrizioni che usai come esercizio. Quelle di Art Tatum non riuscivo nemmeno a leggerle» (13). Com’era normale in anni in cui la scena jazzistica era dominata dalla figura colossale di Charlie Parker, furono, ancor prima dei pianisti, i saxofonisti a impressionare il giovane e a guidarlo nella formazione di uno stile personale: «Dopo il ‘trumpet style’ di Hines, Bud creò il suo ‘sax style’, e dopo di lui questo nuovo modo di esprimersi è diventato piuttosto comune (…). Per quanto mi concerne (…) ho preso un po’ da Hawkins, un po’ da Lester e un po’ da Parker» (14). Prima ancora di completare la scuola superiore, Silver era un musicista semiprofessionista, sia al sax che al piano. Ma fu come pianista che ebbe la prima scrittura di qualche rilievo, al Sundown Club di Hartford, Connecticut, in un gruppo guidato da Harold Holdt. L’importanza di quella scrittura fu indiretta ma cruciale: in quell’occasione Silver fu ascoltato da Stan Getz, che subito lo assunse per un ingaggio in quel medesimo locale, in un quartetto completato da Joe Calloway al contrabbasso e da Walter Bolden alla batteria. Di questa giovane sezione ritmica Getz rimase tanto soddisfatto da portarsela a New York. L’anno circa in cui Silver rimase con Getz gli guadagnò un’esposizione che gli avrebbe procurato scritture, fra gli altri, con due dei suoi idoli: Coleman Hawkins e Lester Young (del lavoro col quale ci è giunta qualche testimonianza live del 1953), nonché con Oscar Pettiford e con Terry Gibbs, un nome importante in quegli anni. Silver ha riconosciuto a Getz un duplice merito: di averlo fatto crescere come musicista (al suo arrivo a New York, la sua preparazione lasciava infatti ancora a desiderare, come ha ricordato in un’intervista Lockjaw Davis, arcigno direttore di sala al Minton’s, che in un’occasione dovette allontanare dal podio il giovane provinciale!) e soprattutto di averlo portato nella capitale del jazz: «Lo dico sempre a tutti: ringrazio Iddio di aver mandato Stan Getz a tirarmi fuori da Hartford» (15). Silver entra in sala d’incisione con il gruppo di Getz in tre occasioni, il 10 dicembre 1950 e poi il 1 marzo e il 15 agosto 1951, registrando un totale di quindici pezzi con due formazioni diverse: nelle prime due sedute, con lo stesso quartetto del Sundown Club; nell’ultima, in compagnia più insigne, con Jimmy Raney alla chitarra, Leonard Gaskin al contrabbasso e Roy Haynes alla batteria. Una serie magnifica, «che inanella in modo indimenticabile pezzi agili ed eleganti come gazzelle» (16). La seconda e la terza seduta comprendono anche le prime composizioni registrate di Silver: Penny e Split Kick nella seconda (Split Kick figurerà anche nel leggendario live dei Jazz Messengers, vedi sotto) e Potter’s Luck nella terza; a questa serie vanno aggiunti tre pezzi registrati dal vivo al Birdland nel 1952 (al contrabbasso c’era Charles Mingus), fra cui ancora Potter’s Luck.

A questo punto aurorale della carriera, Silver, che aveva cominciato a scrivere a quattordici anni, disponeva già di una piccola scorta di composizioni che ne mettevano in luce la vena melodica. Nei dischi con Getz il ventiduenne pianista dimostra di avere già sotto le dita gli ingredienti principali del suo stile, che contrasta benissimo con quello del leader e che fece subito colpo: essenzialmente un accompagnamento fitto e interattivo, che tende a coprire tutti i movimenti della battuta; un embrionale call and response fra le due mani; una passione quasi inordinata per le citazioni (in ’S Wonderful cita addirittura due volte Santa Claus is Coming to Town, nell’intro e poi nell’assolo; e ancora Easy Living in Imagination, Nobody Knows e Down By the Riverside in For Stompers Only, e qui e là Beautiful Dreamer). In Penny si sente per la prima volta il suo molto caratteristico «bugle call». La scrittura di Silver mostra già un interesse insolito verso la forma, nel segno della varietà: le otto battute iniziali di Split Kick sono in tempo di beguine; Potter’s Luck ha una struttura di quarantaquattro battute (AABA, 12+12+8+12) con bridge di otto e la frase A che s’interrompe in sincope sull’undicesima battuta, lasciando alla successiva un break di batteria. Armonicamente, come ha osservato Stefano Zenni, il pianista si mostrava a giorno del vocabolario più recente: «(…) Penny è un rapido esercizio sui passaggi armonici cromatici (una tecnica che il bop aveva mutuato da Tatum), Split Kick è un’originale mistura di armonie tratte da Confirmation su ritmi latini e di frasi bop su 4/4 swing e, insieme a Opus de Funk, diventerà nei primi anni Cinquanta la composizione più popolare di Silver» (17).

Da lì a poco l’attività di Silver prese l’abbrivo per quasi un ventennio di creatività intensa e di risultati sempre eccellenti, spesso eccelsi. Per quanto la sua personalità fosse già abbastanza definita nei lavori registrati con Getz, fu solo grazie a una seduta del 1952 a nome del saxofonista Lou Donaldson che i caratteri del suo stile cominciarono ad apparire evidenti allo stesso pianista. «Dopo Getz (…) registrai con Lou Donaldson per la Blue Note, ed ero più rilassato. Quando ascoltai i nastri, vi sentii qualcosa che era inconfondibilmente Horace Silver. Che cosa esattamente, non lo so, ma seppi che nessun altro suonava in qual modo (…). Chiusi dischi e giradischi in ripostiglio e per un bel pezzo non ascoltai più un disco. Non volevo essere influenzato da nessuno» (18). Nell’ottobre 1952, la rinuncia all’ultimo momento di Donaldson a una seduta già programmata indusse Alfred Lion della Blue Note a offrire a Silver la sua prima occasione discografica da leader, in trio, seguita tredici mesi dopo da un’altra. In queste tre sedute fra ‘52 e ’53, il contrabbasso fu di volta in volta nelle mani di Gene Ramey, Curley Russel e Percy Heath, mentre alla batteria sedette Art Blakey: un incontro, questo, epocale non solo per i due musicisti ma per il jazz a venire. Horace è ormai fra i migliori e più personali discepoli di Bud Powell, soprattutto nell’interpretazione di ballad con lunghe esposizioni ad libitum e relativi manierismi tatumiani (negli anni subito successivi il suo approccio a questi materiali sarà molto diverso e anche controverso: prosciugato, antisentimentale, «strutturalista» secondo alcuni, arido e formulare secondo altri (19)). Rispetto al pianista conosciuto con Stan Getz, in questi solchi si avverte un più di energia, un diverso e più scuro cachet sonoro, di cui è certo corresponsabile la batteria di Blakey: Thou Swell ha un’articolatissima introduzione basata su una scala a toni interi che conduce a un’esecuzione asciutta a tesa; Safari, sua composizione, è esemplata sulla powelliana Un Poco Loco e, con Yeah, Buhaina e Message From Kenya (firmata da Blakey e con l’aggiunta del percussionista Sabu) costituisce un polittico africaneggiante che nell’ultimo caso sembra rimandare alle connotazioni tribali e vagamente minacciose del Cubana Be-Cubana Bop di Russell-Gillespie. Ecaroh, che sarà poi ripresa da Silver con i Jazz Messengers, è una delle sue composizioni più originali e innovative, l’unica – come notato da Stefano Zenni nella sua analisi (20) – in cui Silver deroghi dalla forma-chorus in favore di una multitematica. La formazione del trio non consente a Silver di esprimersi come accompagnatore («un pianista deve accompagnare con lo stesso entusiasmo con cui suona gli assoli», ha detto a Len Lyons), ma negli assoli egli emerge già tutto intero, dispiegando il colorito blues e boogie cui si è accennato, l’eloquenza di Powell (ma meno torrenziale e spiritata) e l’economia strutturale, e talvolta il tocco scampanante, di Monk. Tutta sua è la coerenza strutturale del discorso solistico, costruito architettonicamente sulla pietra angolare di un call and response che, dalle orchestre swing e jump, è trasposto ai riff della sinistra cui rispondono i lick della destra, e su quel peculiare manierismo, una vera firma, di percuotere nei tempi veloci una nota o a volte un cluster di note in contrattempo sulle ottave basse, quasi in espressionistico stride ridotto al valore di puro gesto: «(…) quel che faccio con la sinistra è completamente inconscio (…). Non ci ho ma lavorato per elaborarlo; finché non mi è stato fatto notare, non me n’ero nemmeno mai accorto. È una cosa che capita così» (21).

Il 1954 fu l’anno decisivo per la carriera di Silver e anche per quella di Art Blakey ma, soprattutto, è un anno decisivo per il jazz. Durante una scrittura nel New Jersey, Silver fu assunto dal batterista in un suo effimero nonetto che già portava il nome «The Jazz Messengers» e che si sciolse presto per mancanza di lavoro. Quindi, «Art ottenne una scrittura di due settimane al Birdland. Gli era giunta voce di Clifford Brown, sai, si cominciava a sentir parlare di questo ragazzo che nel Delaware faceva grandi cose. Art andò a pescarlo lì e lo portò a New York. Art, Clifford, Lou Donaldson, Curley Russell al contrabbasso e io: facemmo l’ingaggio del Birdland e da lì venne il disco A Night at Birdland»22: uno dei testi classici del jazz moderno, il primo LP di jazz registrato ufficialmente dal vivo (dalla Blue Note, con cui due anni prima Silver aveva inaugurato una relazione che sarebbe durata per altri venticinque anni) e, quel che più importa, l’occasione per Silver (che dalla formula del trio ha sempre detto di sentirsi limitato) di mettersi alla prova con un gruppo con due fiati: una situazione che aveva già conosciuto come sideman, varie volte anche su disco, ma mai in veste di co-leader e anche di compositore (nel repertorio di quella serata figurano Quicksilver e la già nota Kick Split).
Nell’intenso lavoro discografico come sideman che Silver mantiene in questi anni, spicca quello per Miles Davis, con cui Silver effettua incisioni capitali (raccolte in «Walkin’», «Bags’ Groove» e «Blue Haze») per la definizione dell’hard bop. Qui sentiamo il pianista adattarsi alla musica del leader con intelligenza infallibile, facendosi più rilassato e meno invadente negli accompagnamenti.

Il 14 aprile 1957 Silver entra per l’ultima volta in studio d’incisione come sideman («Sonny Rollins vol. 2»). A questo punto ha compiuto il suo apprendistato e ha anche toccato l’apogeo del suo sviluppo, pur se gran parte delle opere maggiori è ancora di là da venire. Ognuno dei tanti dischi che seguono contiene almeno una gemma, diversi sono capolavori, tutti si presentano come miniere per il musicologo e fonti inesauribili di gioia per l’ascoltatore (chi scrive nutre un entusiasmo particolare per «Horace-scope» e «Blowin’ The Blues Away»), per l’intelligenza e la costante, miracolosa grazia melodica, servite da sidemen all’altezza e spesso ispirati: fra i trombettisti, Kenny Dorham, Blue Mitchell (il quintessenziale trombettista silveriano), Art Farmer, Donald Byrd, Carmel Jones, Woody Shaw, Charles Tolliver, Tom Harrell; fra i saxofonisti, Hank Mobley, Junior Cook, Joe Henderson, Stanley Turrentine, Michael Brecker; fra i batteristi, Louis Hayes (il migliore, insieme con Blakey), Roger Humphries, Roy Brooks, Billy Cobham. Se la grande stagione silveriana può dirsi conclusa con gli anni Sessanta, a questa eredità nulla tolgono i dischi successivi. A tanti anni dai suoi primi capolavori, Horace Silver può considerarsi paradigma di che cosa debba intendersi per «grande del jazz».
(Marco Bertoli)

Note:
(1) Martin Williams, The Jazz Tradition, Oxford University Press, 1970, p. 197.
(2) Sulla genesi e lo sviluppo dei diversi ceppi dell’hard bop dalla fine degli anni Cinquanta, resta essenziale David H. Rosenthal, Hard Bop. Jazz & Black Music, Oxford University Press, 1992.
(3) «L’architetto dell’hard bop», Musica Jazz n. 7/1993, pp. 18-23; «Una rigorosa asimmetria», Musica
Jazz n. 8-9/1993, pp. 28-31. A questo studio in due parti si rimanda per una prima analisi formale della musica di Silver.
(4) Musica Jazz n. 5/1979, p. 24.
(5) Ben Sidran, Talking Jazz. An Oral History, Da Capo, 19952, p. 143.
(6) Alfred B. Spellman, Four Lives In The Bebop Business, Limelight, 1985, p. 102.
(7) Len Lyons, The Great Jazz Pianists, Da Capo, 1983, p. 127.
(8) Alyn Shipton, A New History Of Jazz, Continuum, 2001, pp. 670-671.
(9) (Con Philip Pastras) University of California Press, 2006.
(10) Mario Luzzi, «Horace Silver racconta come andò», Musica Jazz n. 2/1977.
(11) Alyn Shipton, op. cit., pp. 671-672. Le sanctified churches sono chiese d’ispirazione pentecostale, originate nelle comunità nere ancora nel periodo schiavista. La liturgia della sanctified church è
caratterizzata dall’esuberanza nell’esprimere la possessione dei convenuti da parte dello Spirito Santo per il tramite di canti, danze e perfino fenomeni di trance.
(12) David H. Rosenthal, op. cit., p. 36.
(13) Ben Sidran, op. cit., p. 141.
(14) «Horace Silver racconta come andò», cit.
(15) Cit. da Joop Visser nelle note al box Proper «Stan Getz. The Sound».
(16) Gary Giddins, Visions Of Jazz. The First Century, Oxford University Press, 1998, p. 411.
(17) Stefano Zenni, «L’architetto dell’hard bop», cit., p. 19.
(18) Len Lyons, op. cit., p. 124.
(19) Per la prima opinione, v. Martin Williams, op. cit., p. 196; per la seconda, Stefano Zenni, «Una rigorosa asimmetria», cit, p. 28.
(20) Stefano Zenni, «Icaro allo specchio di Orazio», Musica Jazz n. 7/1993, pp. 52-54.
(21) Ben Sidran, op. cit., p. 142.
(22) Len Lyons, op.cit., p. 125.

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