FREE FALL JAZZ

Mary Halvorson si è fatta notare parecchio, e con merito, in questi ultimi anni. In duo, trio e quintetto, la chitarrista ha sempre mostrato idee chiare, stile strumentale davvero originale e, soprattutto, un approccio alla musica davvero personale e intrigante. E’ stata allieva di Anthony Braxton, e questo un po’ si intuisce dallo stile spigoloso e intellettuale, come dai numeri che contraddistinguono i vari pezzi (affiancati però da titoli, in ogni caso balordi). Questo disco, uscito lo scorso anno, fa il punto della situazione e ci permette di apprezzare l’arte della Halvorson al meglio della forma, in quintetto (la maggior parte dei brani) come in trio. La sua chitarra è capace di attraversare con fluidità diversi tipi di tecniche e suoni, fino a sfiorare un’aggressività e una distorsione ai confini del metal. Molto bravi tutti gli accompagnatori, come il trombettista Jonathan Finlayson (da anni pure con Steve Coleman), il sassofonista Jon Irabagon e la portentosa ritmica composta da John Hèbert e Ches Smith – sotto la direttiva della chitarrista nasce un suono di gruppo che nel jazz incorpora stimoli di certo math/avant rock. Il basso plastico e potente, le complesse e nervose traiettorie della batteria e le taglienti pennate della chitarra, infatti, possono portare alla mente la musica geometrica e progressiva dei Don Caballero, e a tratti si sente pure l’influenza del trio di Nels Cline. Le evoluzioni della musica sono spesso imprevedibili e, malgrado l’approccio, come dicevamo prima, distaccato, tengono sulle spine e incantano: come non restare stregati dall’avanzata di ‘Sinks When She Rounds The Bend’, che cresce gradualmente fino ad esplodere in un mare di accordi distorti? Molto belle pure ‘Love In Eight Colors’, con sax e chitarra che procedono in parallelo e si spronano a vicenda dalle sonorità più liquide a quelle più aspre e urticanti, mentre la tromba si prende cadenze libere, senza supporto alcuno; oppure ‘The Periphery Of Scandal’, maestosa costruzione in crescendo dove il blues diventa metallico e incandescente, attraversando i mondi di Muddy Waters, Jimi Hendrix e Marc Ribot, fino al tracollo finale.

‘Bending Bridges’ può non essere un disco immediato e scorrevole al primo ascolto, soprattutto per chi non ha dimestichezza col rock più spigoloso e cerebrale, ma è una delle prove più interessanti e coinvolgenti che il jazz abbia tirato fuori nell’ultimo anno. Da avere.
(Negrodeath)

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