FREE FALL JAZZ

A poca distanza dalla recensione dell’ottimo ‘Take A Little Trip’, Jason Palmer ha risposto gentilmente alle nostre domande svelando parecchie cose interessanti. Il giovane trombettista è una delle stelle in ascesa del panorama americano e finora non ha sbagliato una mossa – inclusa pure la partecipazione in veste di protagonista al film indipendente ‘Guy And Madeline On A Park Bench’, che ci riproponiamo di visionare.

Il tuo ultimo album, ‘Take A Little Trip’, è dedicato alla figura della cantante Minnie Riperton e al suo repertorio. Quali sono le motivazioni dietro a questa scelta?
Ho conosciuto la musica di Minnie indirettamente quando, da teenager, ero un fan del gruppo hip-hop A Tribe Called Quest (fra i più amati dai jazzisti, nda). In una delle canzoni del disco ‘Midnight Marauders’, ‘Lyrics To Go’, c’era un sample di ‘Inside My Love’ della Riperton. Fui colpito istantaneamente dal suono puro della sua voce. Da lì mi sono informato il più possibile su di lei, la sua musica e la sua vita, e fui davvero triste quando seppi della sua battaglia col cancro, finita prematuramente a trentuno anni nel 1979, l’anno della mia nascita. Poi, un paio di anni fa, mi sono messo a cercare nei repertori delle mie cantanti preferiti i pezzi più adatti da “de-rangiare” per lo stile e la strumentazione della mia band di Boston. La discografia di Minnie Riperton è stata la prima a venirmi in mente, assieme a quella della nuova superstar Janelle Monae e alla diva degli anni ’80 Anita Baker.

Come hai scelto le singole canzoni?
Ho fatto lunghe maratone d’ascolto in casa e alla fine ho scelto le canzoni sulla base di due criteri: dovevano essere adatte ad un lavoro di ricostruzione armonica e allo stesso tempo funzionare bene assieme come programma. Doveva insomma venirne fuori un album coerente.

E’ stato difficile “tradurre” queste canzoni in jazz?
Non vedo o sento nessuna reale differenza fra l’estetica musicale di Minnie e quella dell’idioma jazzistico. Così ti posso dire che no, non è stato difficile. In generale, se prendi funk, soul o rhythm’n'blues, si parla sempre di musica che ha valori fondanti condivisi e proviene dalla stessa sorgente, quindi la riscrittura in termini jazz di queste musiche è un fatto del tutto naturale.

Credi sia necessario procedere in questo modo per allargare il repertorio – per aggiungere nuovi standard, diciamo?
Ci sono tantissimi musicisti eccezionali che vanno avanti solo con le loro composizioni originali, che hanno però radici salde nell’opera di chi li ha preceduti. Che puntino su quelle, o su lavori come quello che ho fatto io, cambia poco. Ognuno di noi deve trovarsi la sua via e fare il meglio. Non sarà la creazione o meno di nuovi standard a cambiare le cose, conta più la bravura.

I musicisti che ti accompagnano sul nuovo disco hanno già suonato con te in passato, anche se non tutti assieme. Quanto è importante avere una band stabile?
E’ importantissimo oggi, ma lo è sempre stato. Penso che la band stabile sia il sogno di qualunque musicista serio. Una volta che hai trovato una combinazione di musicisti che funzionano assieme a livello ottimale, con le giuste vibrazioni, la cosa ideale è tenerli uniti con un sacco di lavoro – tour, registrazioni. Purtroppo è una cosa rara nell’economia musicale di oggi.

Uno dei luoghi comuni fra molti vecchi brontoloni è che una volta distinguevi i musicisti, oggi sono tutti uguali. Che ne pensi?
E’ un argomento che ho discusso più volte coi miei studenti. Mi capita di leggere recensioni in cui il giornalista lamenta il fatto che il musicista (spesso della mia età o poco più giovane) non abbia ancora sviluppato una sua voce, o debba ancora trovarla, o altre frasi classiche di questo tipo. Quando succede, mi chiedo sempre se il giornalista abbia ascoltato il disco a ripetizione per una settimana di fila finché non si è accorto di una o due note che possono ricordare, per esempio, lo stile di Miles Davis. E a quel punto allora il musicista è “ancora immaturo”, deve “trovare la sua voce”. Dall’altro lato immagino che secondo alcuni pure John Coltrane o Clifford Brown, che sono morti presto, non abbiano potuto sviluppare abbastanza la propria individualità. Per me, molta di questa mancanza di personalità dipende molto dall’orecchio di chi ascolta, quando eccede nella specializzazione o della superficialità.

Sei anche un insegnante, come accennavi sopra. Quanto è importante insegnare, per te?
Moltissimo. Secondo Dizzy Gillespie, ogni musicista ha l’obbligo di insegnare. Io sono d’accordo, perché ognuno di noi deve poi passare il testimone ai musicisti più giovani per aggiungere nuovi capitoli al libro del jazz. Ci sono tanti stupidi luoghi comuni, tipo che il jazz si deve sentire e non capire, che non può essere insegnato… sono tutte stronzate che sminuiscono pure i grandi del passato. Che invece, tutti quanti, studiavano moltissimo per migliorarsi di continuo. Oggi è la stessa cosa, devi sempre migliorarti e spingere gli altri a fare la stessa cosa. Lo studio che fai nelle scuole e nelle università è il primo passo.

Hai suonato con musicisti molto diversi fra loro: Kenny Barron, Greg Osby, Wynton Marsalis, Roy Haynes, Jimmy Smith, Ravi Coltrane, solo per dirne qualcuno. Quanto è importante mettersi alla prova?
E’ fondamentale suonare coi musicisti più diversi nei più svariati contesti. Ti arricchisce e ti porta, di nuovo, a migliorare.

(Intervista raccolta da Negrodeath)

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