FREE FALL JAZZ

Nei primi anni ’90 l’arrivo dei cut out (dalle nostre parti meglio noti come “forati”) fu una piccola manna dal cielo. Ero solo un bambinetto, ma la fame di nuova musica era tanta e i quattrini, ovviamente, pochi, dunque poter andare in negozio e portare a casa qualcosa di nuovo con sole cinquemila lirette era una novità a dir poco eccitante. E poi quelle enormi scatole di cartone che contenevano i CD erano bellissime a vedersi. A prima vista sembrava potessero contenerne addirittura due o tre, ma, considerando il prezzo, anche realizzare che in realtà ne racchiudevano solo uno non era certo un cattivo affare. Anni dopo scoprii che quelle scatole avevano uno scopo ben preciso: l’altezza di dodici pollici permetteva di poterle disporre negli stessi espositori utilizzati per i vinili, favorendo la “riconversione” dei negozi dopo l’arrivo sul mercato dei compact disc.

I CD in quelle scatole erano solitamente marcati da un taglio lungo il bordo del jewel case o da un foro che li trapassava da fronte a retro (contrassegnando le copertine, ma senza ovviamente compromettere il disco vero e proprio), e il piccolo adesivo bianco e rosso della SIAE li etichettava come “extra BIEM overstock”. A quei tempi si interpretava superficialmente il tutto come un modo per distinguere i CD d’importazione americana ed evitare che fossero rivenduti a prezzo pieno, e la risposta in parte era vera, ma si trattava solo dell’ultima fase di un procedimento ben più complesso. Dall’altra parte dell’oceano succedeva infatti che le major sistematicamente producessero per ogni novità discografica un numero di copie di molto superiore a quelle che il mercato avrebbe effettivamente smaltito, problema il cui peso si avvertiva in particolare verso quei dischi i cui risultati commerciali si rivelavano inferiori alle aspettative iniziali. Nel giro di un paio d’anni l’etichetta di turno sovente decideva di cancellare dal proprio catalogo i titoli dalla resa insoddisfacente, disfandosi delle copie in esubero rivendendole ai distributori “a peso” (ecco spiegata l’origine del prezzo esiguo) in lotti da decine di migliaia, dopo averle ovviamente marcate con il famigerato taglio (o foro) per impedire che qualche rivenditore cercasse di piazzarle a prezzo pieno. La stessa cosa era accaduta qualche tempo prima per i vinili, mentre in quello stesso periodo iniziavano a sbucare fuori anche diverse cassette “cut out”.

Una sobria camicia.

In quegli stock di superofferte era possibile trovare di tutto e di più, passando con estrema facilità da un estremo all’altro: dal piccolo capolavoro alla “sòla” senza possibilità di redenzione. Il primo disco più o meno in tema con questo sito che ricordo di aver visto nello scaffale dei “cut out” di quello che all’epoca era l’unico negozio di musica nei pressi di casa mia fu ‘Picture This’ di Billy Cobham, a cui abbiamo deliberatamente fregato il nome della nostra rubrica omonima. All’epoca jazz e derivati non erano neanche vagamente tra i miei interessi, epperò al negozio sbirciavo quel disco e più di una volta ho persino pensato di comprarlo “sulla fiducia”, più che altro perchè avevo letto che su un (altro) album di Cobham (‘Spectrum’) ci aveva suonato Tommy Bolin. Alla fine ho sempre desistito, investendo i miei soldi in qualcos’altro: capelli lunghi e/o giacche di pelle sembravano credenziali decisamente migliori rispetto a uno che si fa fotografare con le bacchette in mano sullo sfondo di un cielo azzurro indossando camice fashion.

Tutto questo amarcord gratuito per dire fondamentalmente un paio di cose, ossia che “Cut Out Bin” sarà la nostra rubrica dedicata ai dischi (più o  meno) belli dimenticati tra le superofferte e che “Picture This” l’ho finalmente ascoltato diversi anni dopo. Era roba da riccardoni. (Nico Toscani)

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