Se ‘Slanted’ fosse uscito da un sax qualunque, probabilmente le critiche, anche superficiali, non sarebbero mancate: scarsa originalità, poca inventiva, suoni datati… A Ron Holloway, però, che gli vuoi dire? Non che il nome in copertina cambi i contenuti, ma calato nel suo giusto contesto questo disco assume un’identità più che significativa: quella dell’emozionante atto d’amore. Già, perché Ron è cresciuto in una casa di Washintgon D.C. nutrendosi con passione della collezione di dischi di suo padre (40 anni di vinile immarcescibilmente affastellati e una smodata attrazione per le ance), una dedizione che lo ha portato ad imbracciare egli stesso un sax tenore e trascorrere intere giornate estive sigillato in casa cercando di emulare idoli vecchi e nuovi. ‘Slanted’ è il primo passo da leader dopo circa tre lustri di carriera assai variegata, che lo vedono passare con nonchalance dalla straripante miscela rock/funk/r&b del fattone Root Boy Slim a Gil Scott-Heron fino alla corte di Dizzy Gillespie, del cui ultimo quintetto sarà colonna portante. Prima di guardare avanti (cosa che gli riuscirà abbastanza bene con ‘Struttin’’, di due anni successivo), Ron sente il bisogno di dedicarsi, finalmente in libertà, al suono che ha sempre amato e che in precedenza ha potuto assaporare solo a sprazzi, per giunta da sideman. (Continua a leggere)
Michael Shrieve ha suonato con Neal Schon e Sammy Hagar nel progetto H.S.A.S.. È stato anche il batterista di Santana, ma forse all’epoca (quella in cui mi sono imbattuto in questo disco) non lo sapevo. Ad ogni modo, si tratta di referenze che oggi forse sarebbero più che sufficienti a non farmi comprare un disco; tanti anni fa però (credo fosse il 1997, a occhio e croce) furono abbastanza per convincermi a investire qualche migliaia di lire nell’audiocassetta (rigorosamente cut out, il CD purtroppo non c’era) di ‘Stiletto’. Dopo un primo ascolto concluso con un emblematico “ma le chitarre elettriche le ha dimenticate a casa?” (non sono cose belle da rivelare, ma almeno apprezzate l’onestà) di polvere ne prese tanta. Le chitarre elettriche, a dirla tutta, c’erano pure (a cura di Andy Summers per giunta), ma da uno che aveva comprato il disco (cioè, la cassetta) grazie a Neal Schon e Sammy Hagar (idolo, non fraintendete) cosa pretendere? Ci volle qualche mese, forse più, per riprendere quel nastro e, pian piano, iniziare ad “entrarci”. (Continua a leggere)
Nei primi anni ’90 l’arrivo dei cut out (dalle nostre parti meglio noti come “forati”) fu una piccola manna dal cielo. Ero solo un bambinetto, ma la fame di nuova musica era tanta e i quattrini, ovviamente, pochi, dunque poter andare in negozio e portare a casa qualcosa di nuovo con sole cinquemila lirette era una novità a dir poco eccitante. E poi quelle enormi scatole di cartone che contenevano i CD erano bellissime a vedersi. A prima vista sembrava potessero contenerne addirittura due o tre, ma, considerando il prezzo, anche realizzare che in realtà ne racchiudevano solo uno non era certo un cattivo affare. Anni dopo scoprii che quelle scatole avevano uno scopo ben preciso: l’altezza di dodici pollici permetteva di poterle disporre negli stessi espositori utilizzati per i vinili, favorendo la “riconversione” dei negozi dopo l’arrivo sul mercato dei compact disc. (Continua a leggere)