FREE FALL JAZZ

Si parla spesso di Miles Davis inventore del cool jazz (‘Birth Of The Cool’), del Miles modale (‘Kind Of Blue’), del secondo quintetto, del jazz elettrico degli anni ’70, eppure si tende a sorvolare sul suo ruolo nell’hard bop. Strano, perché si tratta della radice di tutto il mainstream jazz moderno, e averne tracciato le rotte in anticipo dovrebbe essere un ulteriore pregio riconosciuto al trombettista di Alton. E invece… misteri della jazzologia italiana, si vede che fa poco chic, perché  ‘Walkin”, dell’hard bop, fu allo stesso tempo manifesto e chiamata alle armi. L’album comprende due sessioni, una del 3 e l’altra del 29 aprile, con una sezione ritmica deluxe che comprende assi come Percy Heath, Horace Silver e Kenny Clarke. Nella seconda vediamo all’opera un sestetto straordinario: oltre ai citati Davis, Heath e Silver troviamo J.J. Johnson, insuperabile virtuoso del trombone, e Lucky Thompson, tenorista dalla voce strumentale profonda e vibrante, ideale punto di raccordo fra la generazione di Coleman Hawkins e Ben Webster e quella di Charlie Parker e Dexter Gordon.

Rompe gli indugi la torrenziale title-track, un ritmato blues dal passo sciolto, elastico, aperto dai tre fiati allunisono che creano un muro di suono degno di una piccola orchestra. Il trombettista non usa più quello stile ovattato e lieve che esibiva su ‘Birth Of The Cool’: restano il gusto inconfondibile per la sobrietà e la predilezione per il registro medio, stavolta al servizio di frasi fluide, squillanti, di un’esuberanza degna del primo Louis Armstrong.  L’assolo di Johnson si innesta con naturalezza su quello di Miles, ne prosegue il discorso fatto di linee melodiche avvolgenti e sinuose, che valorizzano il bel timbro caldo e cupo del trombone; infine arriva il sax di Lucky Thompson, straripante, cremoso, sensuale, cui corrisponde un inevitabile irrobustimento del tessuto ritmico. Horace Silver poi dà un esempio del suo stile pianistico percussivo, risuonante, fortemente ritmico e bluesy, prima che rientri Davis con un esplosivo acuto; e sul finale tutto il gruppo marcia all’unisono di nuovo, chiudendo coi fuochi d’artificio questa incredibile e quintessenziale jam di quattordici minuti. A seguire troviamo ‘Blue ‘n’ Boogie’, il classico di Dizzy Gillespie qui reso in maniera davvero incendiaria: velocissimo, ritmicamente indiavolato, con una sintonia telepatica fra i solisti e un crescendo di eccitazione e adrenalina difficile da eguagliare. Il primo solo è ancora di Davis, ed è da notare come preferisca mantenersi sempre controllato, dosando bene note e pause, in un contesto dove Fats Navarro o l’astro nascente Clifford Brown si sarebbero avventurati in serpentine di note ad alta quota. Finito il turno di Johnson, con un assolo ricco di belle frasi staccate, il tema centrale dà il via all’impressionante eruzione di Lucky Thompson, una maratona di inventiva, gusto, blues al calor negro (…) sottolineata da un vigoroso riff di tromba e trombone negli attimi più concitati – il confine col coevo rhythm’n'blues si fa labile. Dopo un fulminante passaggio funky di Silver si chiude con il frenetico tema. Sette minuti intensissimi di jazz esuberante, ritmato, intenso e orecchiabile: hard-bop, si diceva, no?

La sessione del 3 Aprile vede protagonisti, oltre a Davis e alla solita super-ritmica Silver/Heath/Clarke, il misconosciuto altosassofonista Dave Schildkraut, una sorta di Charlie Parker meno nervoso. Per tutta la sessione Davis usa la sordina, Clarke le spazzole: il suono che ne risulta è sfumato e crepuscolare. ‘Solar’, è un tempo medio molto ritmato e scattante che dipinge paesaggi lunari, surreali, con una bellissima sospensione centrale in cui la tromba fluttua su un leggero tappeto di basso e piatto; ‘You Dont Know What Love Is’, archetipo della ballata Davisiana, è assorta e lirica, penetrante, con un tema magnifico sviluppato egregiamente dal solo Miles; e ‘Love Me Or Leave Me’, velocissimo flusso di immagini sonore dove il tema viene variato ricorsivamente e il proscenio cambia di continuo, fra tromba, sax, batteria (splendidi gli scambi fra Davis e Clarke) e pianoforte (Silver conferma in retrospettiva la sua statura di gigante e, all’epoca, di stella in ascesa).

Per concludere, Walkin‘ è un’opera centrale nella storia di Miles Davis e del jazz in generale: è l’album che dà una svegliata al jazz newyorkese, che definisce il linguaggio dell’hard bop, che fissa nuovi archetipi e fa da ariete di sfondamento per la riscossa dell’autentico jazz nero – i grandi complessi di Horace Silver (non a caso presente qui dentro), di Max Roach e Clifford Brown, di Art Blakey, e le mutevoli formazioni di Sonny Rollins seguiranno a ruota di lì a poco con altri splendidi, imperdibili album.
(Negrodeath)

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