Concerti di livello superiore come quelli cui abbiamo potuto assistere domenica scorsa al Teatro Manzoni di Milano sembrano fatti apposta per confutare (ancora una volta) certa forzata e ideologizzata narrazione italica sul jazz e in particolare su ruolo che oggi avrebbe il cosiddetto “mainstream” sulla scena contemporanea della musica improvvisata. Un ruolo e una rappresentazione privi di riscontri, a nostro avviso, secondo cui esso farebbe parte solo di un passato che non torna più, all’interno di una tradizione musicale ormai superata, conformemente ad una alterata visione “progressista” che ci viene insistentemente propinata circa l’interpretazione delle trasformazioni che il linguaggio jazzistico avrebbe subito nel corso della sua storia e che tuttora continuerebbe a subire.
Molto a proposito, la direzione artistica della manifestazione precisava nello scritto del libretto di sala: «Non di rado, è proprio il mainstream a essere oggetto di critiche da parte di coloro che gli attribuiscono un ruolo conservatore, alieno ad ogni innovazione contemporanea. Il mainstream, in effetti, opera una forma di storicizzazione, tende ad assimilare quelle aree del linguaggio improvvisativo che hanno raggiunto una loro “classicità” e che, perciò, per taluni non hanno più alcunché di significativo e di innovativo da aggiungere. Per sua stessa natura, dunque, il manistream sarebbe scontato ed inefficace. La musica improvvisata avrebbe valore solo e esclusivamente nel suo “qui” ed “ora”, nell’atto di una composizione istantanea che deve forzosamente superare sé stessa e quanto ha contribuito ad articolarne la fisionomia. Il che è in contraddizione con le istanze tradizionali di una cultura in larga parte trasmessa oralmente come quella africana-americana e per la quale il passato ha un valore indiscutibile nel far parte integrante e inscindibile del presente.» E ancora, più avanti scrive: «Pochi linguaggi musicali sono stati oggetto di una forzata “intellettualizzazione” come il jazz. La stessa diatriba sul ruolo conservatore o meno del mainstream lascia percepire come vi sia chi intende l’esistenza del jazz come un fatto “generazionale”: il “vero jazz” sarebbe solo quello contemporaneo, che costantemente ha l’obbligo di “uccidere i propri genitori” in nome di una teoria del progresso che spesso soffre di brutali rimasticature marxiane».
L’esibizione del San Francisco Jazz Collective, che ha brillantemente inaugurato la stagione 2016-2017 di Aperitivo in Concerto, ha esplicato al meglio in musica quanto sia fuori luogo, e per certi versi persino pretestuosa, la suddetta narrazione. Intendiamoci, esiste oggi (ed è sempre esistito) un modo di rileggere il passato musicale sostanzialmente sterile e ripetitivo, ma questo dipende più da chi porta avanti certe operazioni e per farne cosa, precisando che certe grossolane e settarie generalizzazioni sul jazz, alle quali da troppo tempo ci stiamo abituando, non aiutano minimamente né l’appassionato, né il neofita a discernere il buono dal gramo, rischiando solo di confondere le idee su una cultura musicale che fondamentalmente ci è ancora poco nota.
Gli assenti hanno sempre torto, verrebbe da dire, sottolineando comunque che frequentatori dell’ultima ora avrebbero avuto difficoltà a trovare posto in un teatro già sold out. Il collettivo in realtà non costituisce una novità a livello internazionale (è attivo dal 2004), o una sorpresa, se non per un panorama concertistico asfittico come quello nazionale intorno al jazz gestito quasi generalmente in modo noiosamente circoscritto e limitato ad una manciata di nomi, iterati all’inverosimile, a fronte invece di un panorama nazionale ed internazionale che sta proponendo svariate interessanti proposte e giovani virgulti che meriterebbero una maggiore visibilità. Per quel che ci riguarda, un vero e proprio insulto ad una adeguata divulgazione culturale della materia jazzistica, obiettivo lungimirante che dovrebbe invece stare prioritariamente a cuore a qualsiasi operatore del settore.
In questo concerto milanese il collettivo (un ottetto a formazione variabile), composto da alcuni tra i migliori giovani compositori e improvvisatori presenti sulla scena contemporanea del jazz americano, si è presentato con un inedito progetto sulle musiche di Miles Davis (non ancora rilasciato su CD), dopo aver già riletto in modo davvero aggiornato e originale diverse pagine prodotte da alcuni dei maggiori protagonisti della musica improvvisata americana: da Thelonious Monk e Horace Silver, passando per John Coltrane, Ornette Coleman, Wayne Shorter e Joe Henderson, andando anche oltre, arrivando cioè a toccare il bacino culturale comune della musiche popolari afro-americane, con icone come Stevie Wonder e Michael Jackson. Nulla di tutto questo ha a che vedere con una riproposizione sterile e iconografica di certo materiale già noto, come si vorrebbe da più parti far intendere, anche se il progetto su un nome così inflazionato come quello di Davis lasciava supporre il rischio di una possibile buccia di banana per il collettivo. Niente di tutto questo si è invece verificato, anzi, sin dalle prime battute si è potuta apprezzare una freschezza di approccio al materiale e una proprietà linguistica davvero ragguardevole, e ciò per merito indubbio di musicisti di valore ormai assodato, che presi singolarmente possono tranquillamente giocare (e giocano peraltro già da tempo) un ruolo autonomo da leader. Stiamo parlando di musicisti di grande talento, ormai completamente formati e che si sono confermati tali proprio nei brani originali, per quanto ispirati sempre a Miles Davis (con l’eccezione del più anziano del gruppo e già da tempo affermato a fare un po’ da riferimento carismatico, ossia il trombonista Robin Eubanks, posizionato non casualmente al centro della scena sul palco). Prendendo infatti spunto da brandelli tematici della sua musica, il collettivo ha evidenziato un equilibrio e un gusto non comuni tra parti scritte e improvvisate. Molta cura si è rivelata nella ricerca degli impasti timbrici, delle giuste dinamiche e nella strutturazione degli arrangiamenti, tali da far sembrare l’ottetto quasi una moderna e sofisticata big band. Il contributo scritto nel set di brani proposti è stato plurimo e ciascun componente del collettivo ha potuto e voluto fornire il proprio. Pur tra il magistero generale, una menzione particolare merita il vibrafonista Warren Wolf, che su una sua splendida e coinvolgente composizione intitolata In The Heat Of The Night ha rivelato una dimestichezza e un’abilità rare, da improvvisatore davvero naturale e al tempo stesso navigato, meritando l’acclamazione generale della platea. Personalmente non conoscevo ancora l’abilità batteristica di Obed Calvaire, che ha saputo reggere la ritmica, assieme all’ottimo Matt Penman, con una serie di figurazioni ritmiche e una alternanza di tempi complessi davvero varie e sofisticate, confermando ancora una volta la tradizionale e indiscutibile superiorità della scuola afro-americana sullo strumento. Ottimo il contributo anche del portoricano David Sanchez in Canto, una sua suggestiva composizione in cui è emersa anche una certa vena latina, mentre si è confermato il valore di Miguel Zenon, in quanto noto da tempo come una delle personalità più interessanti emerse dalle ultime generazioni di jazzisti. Il ruolo di Davis è stato portato con grande perizia e personalità da Sean Jones che ha brillato come solista sulle rielaborazioni originali di Tutu, e Bitches Brew. Altrettanto fresche si sono rivelate le riletture di So What, quasi completamente rivisto in modo peraltro molto appropriato e distante dalla versione originale, e di Nardis, con l’accenno sorprendente ad un certo punto a ritmi dal profumo orientaleggiante. Tutto ciò a conferma che nel jazz non è tanto importante il materiale che si intende utilizzare, ma come lo si elabora. Chi si è limitato più ad un compito di supporto e collegamento è stato Ed Simon, peraltro assolutamente pertinente e necessario all’interno del gruppo.
Un’ultima osservazione, più generale, la faccio considerando come collettivi di questo genere, nei quali si riuniscono in modo sinergico musicisti di così alto livello, siano ormai diventati una rarità, in un periodo in cui prevale invece un individualismo a volte un po’ forzato e ingiustificato, che spesso non si rivela proporzionato al talento del singolo musicista. Una via quella della “reunion” tra grandi musicisti che è sempre stata foriera di grande musica nel jazz e di scambio di idee. Un’abitudine che dovrebbe essere più spesso ripresa.
(Riccardo Facchi)