FREE FALL JAZZ

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E parecchio che non recensisco incisioni del passato che meritano una adeguata riscoperta. Solitamente lo faccio solo per i grandi capolavori. Questo Shorter by Two inciso da due pianisti, in teoria non di primissima fascia ma bravissimi, come Kirk Lightsey e Harold Danko, e dedicato integralmente alle composizioni di Wayne Shorter, se non è un capolavoro, poco ci manca. Da un po’ di tempo mi sto convincendo che, al di là di più o meno libere e apprezzabili improvvisazioni e virtuosismi vari, per fare degli ottimi dischi di jazz, di qualsiasi ambito stilistico essi siano, anche il più avanzato, occorra l’utilizzo di eccellente materiale compositivo, sia che si tratti di proprie composizioni o di quelle altrui. Non è certo condizione sufficiente ma è probabilmente necessaria. Un pensiero del genere mi è venuto, ad esempio, nel recente ascolto dell’ottimo disco di Nate Wooley sulle musiche di Wynton Marsalis, che mi è parso più che interessante e progettato da un musicista della cosiddetta “avanguardia” che ha sorpreso buona parte di quella critica portatrice di insistiti e un po’ bislacchi discorsi para-ideologici sul sedicente “conservatorismo reazionario” del trombettista di New Orleans, non facendosi minimamente condizionare, badando al sodo e valutando il materiale compositivo per quel che realmente vale.

Nel caso specifico del disco in questione, il materiale compositivo prescelto è davvero di livello assoluto, perché preso dal book di uno dei più grandi compositori che il jazz moderno abbia avuto, ossia Wayne Shorter, che, come potrete notare dai frequenti articoli a lui dedicati sul mio blog, è uno dei miei jazzisti preferiti. Non si tratta certo di una eccezione, anzi, direi che le composizioni di Shorter sono parecchio battute da molti jazzisti delle vecchie e nuove generazioni, ma i due valenti pianisti hanno saputo qui affrontare difficoltà che per altri contesti non si presentavano. Innanzitutto la scelta del duo pianistico era assai rischiosa. Non sono poi moltissimi i dischi artisticamente davvero riusciti pensati in duo pianistico, poiché il rischio di sovrapposizione solistica, di opulenza armonica e di sterile competizione virtuosistica è evitabile solo con un’attenta distribuzione dei compiti, oltre che con una necessaria valutazione sulla compatibilità stilistica tra i pianisti. Senza citare il pessimo risultato che si ottenne ai tempi con la sbilenca accoppiata Mary Lou Williams-Cecil Taylor che incisero per la Pablo Live, se non erro, ci sono stati parecchi antecedenti citabili: gli incontri ad esempio tra Duke Ellington e Billy Strayhorn, Earl Hines e Jaki Byard, quelli di Tommy Flanagan con Hank Jones e lo stesso Byard, Barry Harris con Kenny Barron, o Herbie Hancock e Chick Corea. Più recentemente quelli abbastanza sciapi tra Barron e Mehldau o Bollani e Corea. Non sempre i risultati sono stati buoni e spesso si sono rivelati inferiori alla somma delle parti. Non è comunque il caso di questo disco, che è riuscito tra l’altro a gettare una luce nuova su composizioni già eccelse di loro. E’ apprezzabile ed evidente lo studio approfondito effettuato circa la scelta accurata del materiale da utilizzare e la riscrittura per due pianoforti. Lightsey e Danko eseguono versioni di 11 composizioni di Shorter, scavando nei meandri melodico-armonici di brani come Ana Maria, Dance Cadaverous, Lester Left in Town, in versione quasi boogie-woogie, El Gaucho e Nefertiti, mettendone in evidenza la nitida bellezza. Personalmente ho preferenze assolute per la versione di Armageddon, che ha davvero qualcosa di drammaticamente apocalittico, presa con un tempo più lento rispetto all’originale, davvero maestoso che evidenzia al massimo la bellezza della melodia. Per non parlare di Iris, una ballad già strepitosa di suo. Disco altamente raccomandato e da collocare con orgoglio e soddisfazione nella propria discoteca.
(Riccardo Facchi)

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