FREE FALL JAZZ

Alla prima parte | Alla terza parte

E’ soprattutto grazie alla pratica religiosa che gli schiavi riuscirono ad evadere con successo dalle vie obbligate della cultura bianca[22]. Durante le loro riunioni segrete, tenute di notte e in luoghi nascosti o inaccessibili, gli africani-americani esorcizzavano le pressanti angosce prodotte dal sistema schiavistico grazie ad un’eccitazione spirituale collettiva. La loro musica, di derivazione ancora marcatamente africana, contribuiva a rafforzare i sentimenti identitari della comunità africana-americana, mentre la danza, orientata su schemi prevalentemente circolari, consentiva loro di trasgredire l’impostazione prettamente lineare delle forme d’espressione fisica allora usuali negli Stati Uniti. Emanando direttamente dal loro passato, questa esperienza religiosa servì a rafforzare i legami collettivi della comunità nera nel contesto di generale ostilità dell’America bianca. Non può stupire, quindi, che la visione con cui Nat Turner diede il via alla rivolta degli schiavi del 1831 traesse origine da uno straordinario fenomeno di oscuramento del sole, supremo mistero del tempo cosmico. Questo profondo legame con la Natura permarrà a contraddistinguere buona parte della produzione musicale africana-americana sino ai nostri giorni: a tal proposito basti considerare il peso avuto, nel jazz, dal cosiddetto jungle-style.

Tutto ciò sembra mal conciliarsi con l’avvento di un linguaggio musicale praticato sin dalle sue origini in ambiti tutt’altro che “spirituali” (è anche vero che l’ascesa del jazz, fra gli anni Venti e Trenta del Novecento, coincide con una vera ondata di laicità fra le popolazioni africano-americane urbanizzate. Scriveva William Pickens, allora attivista della NAACP, già nel 1923: Intelligent people are getting further and further from the church.

La “cristianizzazione” degli africano-americani non ha mai comportato un abbandono delle radici africane, per quanto vaghe, varie, disperse nei secoli: il concetto di un black sacred cosmos che considera sacro l’intero universo non solo è sopravvissuto, ma si è delineato con particolare forza, permeando di sé le manifestazioni della spiritualità africano-americana: più che replicare le forme culturali dell’establishment bianco dominante cui erano assoggettati, gli africano-americani hanno agito in parallelo. Come schiavi nelle fattorie e piantagioni, poi come domestici nelle case dei proprietari bianchi, gli africano-americani erano a stretto contatto con alcuni degli aspetti più intimi della vita e della cultura bianche, dal credo religioso al comportamento sessuale, laddove quegli stessi bianchi erano in larga maggioranza del tutto ignari e ignoranti della quasi totalità degli usi, costumi e delle aspirazioni o delle manifestazioni di pensiero degli schiavi come dei loro discendenti. Ancora oggi non manca chi considera la maggior parte della creatività africano-americana dell’ultimo secolo (per non parlare dei secoli precedenti) come il risultato di un processo di stravagante e peculiare adattamento ai canoni culturali europei: un curioso neo-colonialismo eurocentrico che sembra manifestare delusione per le aspettative nutrite nei confronti degli africano-americani e così facendo cancella ogni complesso di colpa per circa duecentocinquant’anni di schiavitù e oltre cento di segregazione reale e maldestramente mascherata.

A seconda del profilo culturale e storico del credo religioso di origine africana, oggetti sacri o figure sacre diverse sono al centro del black sacred cosmos. Per le tradizioni sincretiche rimaste più legate alla religiosità africana, come il Voudou a Haiti, la Santeria a Cuba, l’Obeaia in Giamaica, il Candomblé e l’Umbanda in Brasile, le divinità africane e le forze spirituali hanno svolto un ruolo più significativo nei rituali e nelle pratiche devozionali dei credenti. Per la Cristianità africano-americana, il Dio Cristiano rivelatosi attraverso Gesù Cristo domina il black sacred cosmos. Laddove la struttura del credo per gli africano-americani cristiani era affine alle vedute ortodosse dei bianchi americani cristiani, vi erano ciononostante differenti livelli di enfasi e valenze attribuite a determinati approcci teologici. Il Dio del Vecchio Testamento, vendicativo ma giusto e vendicatore, in grado di liberare gli ebrei dalla schiavitù in Egitto con un’esibizione di potere straordinaria, rimane ancora oggi una figura centrale e dominante nelle chiese africano-americane: non sorprende che, sebbene a fasi alterne, molti africano-americani –laici o religiosi- abbiano avvertito una profonda affinità con le comunità ebraiche (che ha dato e dà ancora vita a manifestazioni culturali e creative di notevole rilevanza) e, successivamente, con lo stato di Israele. Di particolare rilievo nell’interpretazione e nella rivelazione del sacred black cosmos rimane invece il carattere estatico e visionario: l’estasi spirituale che può unire in un’unica esperienza di trance collettiva il predicatore e la sua comunità assurge a dimensione pressoché spettacolare. Si potrebbe ben dire che la prima esperienza teatrale degli africano-americani sia stata proprio la chiesa, palcoscenico per una rivelazione che va aldilà della catarsi ricercata dalla tragedia greca e che sfocia nella trascendenza: non una liberazione totale dalle emozioni, ma una vera e propria comunione intima, disinibita, totalizzante con Dio, avvertibile soprattutto nelle congregazioni delle chiese Battiste e Metodiste ma anche in quelle Cattoliche, Episcopali, Presbiteriane, Congrazionaliste e Pentecostali. La realtà spirituale del black sacred cosmos è come un fiume carsico che attraversa l’intera esperienza, culturale e spirituale, africano-americana. E forse ad esso pensava Léopold Senghor quando ricordava: Cette force ordinatrice qui fait le style nègre est le rythme. C’est la chose la plus sensible et la moins matérielle.

L’emergere del jazz come fenomeno primario della cultura africano-americana e della cultura americana del XX secolo sembra far emergere un côté interamente laico e fortemente fisico dell’esperienza africano-americana. Gli stessi intellettuali bianchi che, in positivo o in negativo, si avvicinavano al jazz, tendevano ad esaltarne e diffonderne un’immagine fortemente “fisica”, una sorta di rivincita, in realtà tutta intellettuale, del corpo e della sua espressività rispetto all’elaborazione musicale e culturale europea. Già in precedenza, il fenomeno del minstrelsy, che in modo pur perverso e obliquo aveva contribuito, malgré soi, alla divulgazione della cultura musicale africano-americana, aveva minimizzato il messaggio spirituale e sofferente dei work song, dei sorrow song e degli escape song, trasformandoli in materiale spettacolare e ribaltandone il significato: dello schiavo veniva data la raffigurazione di un bon sauvage bonario, felice di essere schiavizzato e di avere dei padroni che ne prendessero cura. La stessa vena elegiaca e malinconica di un pregevole autore come Stephen Foster (la cui produzione deve non poco ai plantation song) si piegò, forse inavvertitamente, a descrivere la “felicità” degli oppressi in pagine come Swanee River o My Kentucky Home. E lo stesso si può dire del sentimentalismo elaborato da un pur notevole compositore come l’africano-americano James Bland. Così come a lungo sfuggì alla percezione del pubblico l’elemento spirituale del blues, la valvola di sfogo che esso rappresentava e il suo quasi inestricabile rapporto con il jazz: nel mondo dei floor show e della Swing Era, non era facile leggere fra le righe, per quanto fin dal 1870 i Fisk Jubilee Singers e, successivamente, una pletora di autori africano-americani, da James Weldon Johnson fino a Langston Hughes, avessero posto sempre più l’accento sulla spiritualità africano-americana e la sua influenza culturale.

Proprio nel corso dell’Harlem Renaissance, l’insistenza sulla spiritualità africano-americana come strumento di speranza e di resistenza si fa spiccata, anche in risposta alla scarsa considerazione, se non disprezzo e aperta opposizione, che alcune chiese africano-americane mostravano nei confronti del mondo dell’arte africano-americana meno convezionale e meno allineata ai canoni convenzionali dell’establishment (già W. E. B. Du Bois criticava le chiese africano-americane per la loro passività, che egli reputava fosse insita nello stesso concetto di Cristianità, un tratto fortemente sottolineato anche in un lavoro teatrale come A Fool’s Errand di Eulalie Spence del 1927). Larga parte della popolazione africana-americana era stata allevata secondo i criteri dell’educazione vittoriana (il che spiega come a lungo la borghesia africano-americana abbia osteggiato the patterns of urbane exoticism found in jazz and the blues, secondo quanto affermava Wilson J. Moses[24]), una sorta di risposta all’immagine deteriore dei nero-americani che il minstrelsy aveva a lungo diffuso. Le migliori università africano-americane, come Howard, Fisk o l’università di Atlanta erano state fondate soprattutto da organizzazioni missionarie bianche, che manifestavano aperta ostilità nei confronti della laicità, così come accadeva in istituti industriali come il Tuskegee Institute e lo Hampton Institute D’altronde, le chiese erano fra i pochi luoghi pubblici che gli africano-americani potevano permettersi senza avvertire il peso e la violenza della segregazione razziale. Come riportava nel 1926 un rapporto dell’Interracial Committee istituito dal sindaco di Detroit, the average African American had been humiliated in so many public and privately owned institutions and amusement places that he has resorted to the church as a place in which he can be sure of peacefully spending his leisure time. To a large extent it takes the place of the theatre, the dance halls and similar amusement places and fills the vacancy created by the failure of the public and commercial places of recreation and amusement to give him a cordial welcome[25]. Gli autori della Harlem Renaissance criticavano con asprezza il ruolo conservatore delle Chiese nero-americane, sottolineandone l’apparente incapacità di comprendere le aspirazioni di una popolazione sempre più conscia dei soprusi ricevuti e che ancora subiva. Uno storico quale Carter Woodson osservava: One of the most striking evidences of the failure of higher education among Negroes is their estrangement from the masses, the very people upon whom they must eventually count for carrying on a program of progress. Of this, the Negro churches supply the most striking illustration. The large majority of Negro communicants still belong to these churches, but the more education the Negroes undergo the less comfort they seem to find in these evangelical groups. These churches do not measure up to the standard set by the university preachers of the Northern centres of learning. Most Negroes returning as finished products from such institutions, then, are forever lost to the popular Negro churches. The unchurched of this class do not become members of such congregations, and those who have thus connected themselves remain chiefly for political or personal reasons and tend to become communicants in name only[26]. Autori come la già citata Eulalie Spence, come Willis Richardson, Andrew Burris, Langston Hughes, Owen Dotson, May Miller si chiedevano se un’istituzione come la Chiesa fosse in grado di sostenere la crescita culturale e politica degli africano-americano (Richardson e la Miller avvertivano come ulteriore ostacolo anche la sopravvivenza delle radici spirituali ereditate dalla tradizione africana); ciononostante, il loro linguaggio, così come quello di Zora Neale Hudson, Marita Bonner, Randolph Edmonds o, prima ancora, di James Weldon Johnson, attingeva a piene mani all’immaginifica scrittura biblica, con una fortissima identificazione con gli ebrei del Vecchio Testamento: a tal proposito si considerino anche l’opera poetica di Sterling Brown (Honey / Don’t be feared of them pearly gates, / Don’t go ’round to de back, / No mo, dataway / Not evah no mo’[27]), molte pagine del già citato Langston Hughes (ancor più esplicito in un lavoro come Tambourines to Glory),  Claude McKay in una pagina apparentemente lontana dal contesto africano-americano come St. Isaac’s Church, Petrograd, certi testi del pur laico Jean Toomer o i lavori teatrali di Hughes Allison.

Negli stessi anni il jazz, nell’emigrazione degli africano-americani dal Sud degli Stati Uniti verso le metropoli del Nord, sembra perdere le connessioni religiose che sicuramente esistevano nel contesto culturale di New Orleans e di tutti gli stati del Sud, per quanto l’apparente esaltazione del corpo e del suo potenziale linguaggio ritmico non di rado non nasconda la volontà, comune a molte culture africane, di considerare il corpo il tramite fra il mondo fisico e quello spirituale, that facilitates the internalization and reenactment of communal beliefs (Susan McClary e Robert Walser, Theorizing the Body in African-American Music, Black Music Research Journal, Vol. 14, nº 1, Spring 1994,pp. 75-84). Certamente, il rapporto esplicito con la religiosità storica africano-americana si allenta. Forse perché lo stesso jazz, come sostiene Neil Leonard, stava diventando una religione, ben più di come la descrivesse Ted Joans (JAZZ is my religion and it alone do I dig the jazz/clubs are my houses of worship and sometimes the concert halls/but some/holy places are too commercial (like churches) so I/don’t dig the/sermons there I buy jazz sides to dig in solitude Like/man/Harlem,/Harlem U.S.A. used used to be a jazz heaven where most of/the jazz/sermons were preached but now-a-days due to chacha/cha and/rotten rock ‘n’roll alotta good jazzmen have sold their/souls but jazz/is still my religion because I know and feel the message/it brings/like reverend Dizzy Gillespie/Brother Bird and/Basie/Uncle/Armstrong/Minister Monk/ Deacon Miles Davis/Rector/Rollins/Priest Ellington/His funkness Horace Silver/and the great/Pope/John, John COLTRANE and Cecil Taylor They/Preach A Sermon/That Always Swings!!/[28]); allo stesso tempo, l’ostilità nei confronti del troppo laico jazz da parte delle chiese americane, ma soprattutto africano-americane, resiste e si fa persino più spiccato. Come sottolinea il Reverendo Clifford L. Aerie, ministro della United Church of Christ e fondatore dell’Oîkos Ensemble (JazzTimes, 31/10/2010): Clearly, African American churches have nurtured the musical and spiritual pilgrimage of many of our greatest jazz players. Even so there has often been a religious reluctance in many of these churches to let jazz improvisation and the Spirit mingle too closely. Early in my pastoral career I served as an Associate Pastor in an integrated congregation where Bach and gospel were heard side-by-side. But jazz? “Well, you know those jazz musicians,” many would say regardless of color. “Their music is so hard to understand, and their lifestyle, well …” I recall that the mass exodus from that worship service in 1971, according to some of the parishoners, was because we were playing the “devil’s music,” fit only for sinful venues.

Ciononostante, dagli anni Cinquanta la musica improvvisata, più che riconnettersi a parte delle sue origini (dalle quali, a ben vedere, non si era mai separato, come doveva provare, ad esempio, il fenomeno del soul-jazz), torna a presentarsi nelle chiese (si consideri un’incisione come Jazz at the Vespers, realizzata da George Lewis presso la Holy Trinity Episcopal Church di Oxford, Ohio, una domenica del febbraio 1954, senza dimenticare altri lavori discografici come Swing Low Sweet Spiritual, inciso da Jack Teagarden nel 1957, e Louis and the Good Book, realizzato da Louis Armstrong nel 1958), assumendo un ruolo specifico nella definizione e nello svolgimento della liturgia. E’ forse casuale che negli stessi anni, per l’esattezza nel 1960, una pellicola (peraltro piuttosto mediocre) di Ranald MacDougall come The Subterraneans (la cui colonna sonora era firmata da André Previn) mostrasse Gerry Mulligan nei panni di un sacerdote-sassofonista innamorato del jazz. Non è invece casuale che nel 1958 Duke Ellington rileggesse parzialmente un lavoro come Black, Brown and Beige, affidando la parte vocale in “Come Sunday” e “The 23rd Psalm” a una cantante dall’espressività peculiare e devozionale come Mahalia Jackson: un tipico tratto della sua tendenza di say things without saying them.

Nel gennaio 1959, Ed Summerlin, clarinettista e docente del North Texas State College nonché collaboratore delle orchestre di Sonny Dunham, Ted Weems, Tony Pastor, si rivolge al Reverendo Bill Slack, Jr., pastore assistente alla First Methodist Church di Denton, Texas: la figlia Mary Jo, di nove mesi, sta morendo per per una patologia cardiaca congenita. Dopo alcuni incontri, il pastore suggerisce a Summerlin un peculiare modo di affrontare la dolorosa perdita: scrivere un servizio religioso con il linguaggio del jazz. Una proposta che inizialmente lascia il musicista interdetto: There was this problem of writing music that would be jazz, but would be the kind of music that would make people feel they were prepared to worship (Down Beat, 31 marzo 1960, vol. 27, n. 7). Dopo essersi consultato con un professore di teologia, Summerlin adatta musicalmente un testo secondo la liturgia metodista wesleyana: nasce così Requiem for Mary Jo, presentato per la prima volta alla Southern Methodist University di Dallas dall’autore e da altri sette musicisti. Il lavoro, verrà inserito, nel 1963, per l’etichetta discografica Ecclesia, in un album intitolato Liturgical Jazz: nel frattempo, Summerlin (1928-2006), trasferitosi a New York , lavorerà con Don Ellis, Steve Swallow, Ron Carter, Sheila Jordan, Steve Kuhn, Eric Dolphy, Slide Hampton, Freddie Hubbard, Lee Konitz, David Liebman, Toshiko Akiyoshi.

Requiem for Mary Jo viene anche presentato televisivamente dalla NBC, nell’ambito del popolare programma del sabato sera, World Wide 60: per quanto i consensi ecclesiastici siano ampli e diffusi, la reazione delle comunità di fedeli è di gran lunga meno entusiasta e il lavoro di Summerlin viene accusato di essere smaccatamente comunista in varie lettere di protesta indirizzate alla NBC e ai maggiorenti della Chiesa Metodista: If you’re going to have a jazz band in heaven, I’ll go to hell!It sickened me tonight, to listen to the most sacrilegious program I have ever heard. What a contribution to Communism.

Da allora, lavori religiosi scritti da Frank Tirro (American Jazz Mass, scritta nel 1959 e pubblicata nel 1960), Louis Bellson (The Sacred Music of Louis Bellson), Paul Horn e Lalo Schifrin (Jazz Suite on the Mass Texts), Lalo Schifrin (Rock Requiem), Vince Guaraldi (Grace Cathedral Concert), Andy Tecson, Peter Scholtes, Joe Masters (The Jazz Mass), Jack Herrera, Jonathan Klein (Hear, O Israel), Burrell Joseph Gluskin (Jazz VespersLutheran Jazz Mass), Eddie Bonnemere (Missa Hodierna), Malcolm Boyd e Charlie Byrd, Barry Sames, Kent Schneider, Randy Weston, Ike Sturm, Deanna Witkowski, Lance Bryant, Bill Carter, persino da Airto Moreira (Missa Espiritual) hanno articolato un repertorio in cui il jazz si fa ufficialmente “musica sacra”, con una funzione liturgica specifica che non possedevano lavori altrettanto, se non di più, intrisi di spiritualità come A Love Supreme di John Coltrane, After Fajr di Ahmad Jamal o Bless You di Howard McGhee o certe pagine di Pharoah Sanders, Alice Coltrane, Yusef Lateef, Max Roach, Albert Ayler o, ancora, di Wynton Marsalis (In This House, On This Morning o Abyssinian Mass). Come ha scritto il pianista Eric Reed: When you get right down to it, the term “sacred jazz” becomes somewhat redundant because the nascence of jazz is in sacred music! Do you think Jelly Roll Morton (who probably did invent piano jazz) simply stumbled upon “Wild Man Blues” without ever hearing a gospel blues? It’s doubtful he could have spent five years in Chicago and not have ever crossed paths with Rev. Thomas Dorsey or Mahalia Jackson. The stamp of “sacred jazz” is actually rather generic, mainly because it covers such a wide array of artistic concepts. As a child, “jazz” and “sacred” had always intersected in my playing: from bluesy treatments of hymns like “Amazing Grace” or “Pass Me Not, O Gentle Savior” in my father’s Baptist church to Charles Brown’s “Merry Christmas, Baby” while entertaining family friends[29]. E forse lo stesso jazz può dirsi una religione. Non casualmente, a proposito di una fotografia scattata a Roy Haynes, Hank Jones e Joe Benjamin, il fotografo africano-americano Roy DeCarava commenta: The image speaks of a true religion, if you will. It is religion of commitment, the religion of work and the religion of selflessnessof giving oneself to what one does completely. (Roy DeCarava, “The Sound I Saw: The Jazz Photos of Roy DeCarava,” Archives and Special Collections, Hunter College Libraries, City University of New York).

Fra gli autori che hanno deciso di riannodare in modo evidente i rapporti fra il jazz e un contesto religioso si contano, in modo più evidente e profondo, Duke Ellington (i tre Sacred Concert), Dave Brubeck[30] (A Light in the WildernessThe Gates of JusticeTruth Is FallenLa Fiesta de la PosadaBeloved SonTo Hope! A Celebration) e, soprattutto, Mary Lou Williams. Quest’ultima, infatti, rappresenta un caso particolare, per quanto il cosiddetto Sacred Jazz non intendesse limitarsi ad avere una pura funzione di commento alla liturgia, ma vedesse in essa il riflesso di problematiche sociali e politiche irrisolte, l’immagine del mondo come doveva essere ma non era; come devota cattolica, la Williams affronta coscientemente la forma e il contenuto della Messa. Lo fa con un’acuta percezione del divario non facilmente colmabile fra improvvisazione e pagina scritta, fra forme codificate dall’accademia e tradizione orale, da autrice che nel corso di un’intensa carriera aveva saputo assimilare pressoché l’intero spettro dell’esperienza musicale africano-americana novecentesca: già con pagine quali Waltz BoogieZodiac Suite o una composizione come Trumpet No End (per l’orchestra di Duke Ellington) aveva dimostrato di possedere un pensiero compositivo superiore e in grado di misurarsi con la complessità di strutture di vasto respiro.

L’immersione della Williams nella liturgia cattolica non nasce casualmente, ma da una profonda crisi spirituale e artistica. Inutile ripercorrere tutta la biografia dell’artista, basti ricordare l’eccellente pianista, l’abile arrangiatrice e la sofisticata, profonda autrice che aveva letteralmente forgiato musicalmente l’orchestra di Andy Kirk, i Clouds of Joy, aveva contribuito al repertorio di Benny Goodman, Dizzy Gillespie, Jimmie Lunceford (per quanto le sue composizioni venissero eseguite anche da Louis Armstrong, Glen Gray, Bob Crosby, Earl Hines, Tommy Dorsey), aveva saputo adottare e allargare con notevole idiomaticità il linguaggio del be bop. Usa a una tradizione in cui la musica era funzionale, forse proprio l’iconoclastico, acceso individualismo del bop e il suo progressivo distacco da determinati ambiti sociali tradizionali africano-americani provocano nella Williams un progressivo allontanamento, che lei stessa narra così quando, nel 1952, lascia New York per una lunga tournée in Europa, soprattutto in Francia e in Inghilterra: My life turned when I was in Europe. I played England for one month and spent money as fast as I made it. I was distracted
and depressed. At a party given by Gerald Lascelles—he’s an English jazz writer and a member of royalty-I met this G.I.. He noticed something was wrong, and he said, ‘You should read the ninety-first Psalm.’ I went home and read all the Psalms. They cooled me and made me feel protected. Then I went to France and played theaters and clubs, and I still didn’t feel right. Dave Dochonet, a French musician, asked me to his grandmother’s place in the country to rest. I stayed there six months and I just slept and ate and read the Psalms and prayed…When I came back from Europe, I decided not to play anymore. I was raised Protestant, but lost my religion when I was about twelve. I joined Adam Powell’s [Harlem Baptist] church. I went there on Sunday, and during the week I sat in Our Lady of Lourdes, a Catholic church over on a Hundred and forty-second street. I just sat there and meditated. All kinds of people came in—needy ones and cripples—and I brought them here [her home] and gave them food and talked to them and gave them money. Music had left my head, and I hardly remembered playing. Then Father Anthony Woods—he’s a Jesuit—gave Lorraine Gillespie and me instruction, and we were taken into the church in May of 1957. I became a kind of fanatic for a while. I’d live on apples and water for nine days at a time. I stopped smoking. I shut myself up here like a monk. Father Woods got worried and he told me, ‘Mary, you’re an artist. You belong at the piano and writing music. It’s my business to help people through the church and your business to help people through music’. He got me playing again[31].

Dopo tre anni di ritiro dalle scene, la Williams torna a esibirsi (memorabile, fra le tante, la sua esibizione, al Festival di Newport del 1957, con la big band di Dizzy Gillespie), dedicandosi inoltre all’insegnamento; il suo pianismo, per quanto fortemente ancorato alla tradizione, mostra di sapersi adeguare ai nuovi sviluppi della musica improvvisata (come continuerà a mostrare fino agli ultimi anni di attività: in questo senso, è più che indicativa un’incisione come Free Spirits, del 1975).  La conversione al Cattolicesimo (accompagnata da una serie d’inizative benefiche, come la creazione della Bel Canto Foundation a favore di musicisti disagiati) sembra ridefinire e dare nuova forma ad una concezione della creatività che echeggia quella del sacred black cosmosJazz is basically spiritual, religious-like all music, all art. The communication is with something higher than you, and it doesn’t matter if you call that something Buddha or God or what. But the music has to be played with love, and when it is, it brings people together. You could even say it is healing. Jazz    comes directly from inside you and it has to be felt to be played. It’s the same whether you are playing in a club or in a church)[32].

Il primo lavoro sacro di Mary Lou Williams, Black Christ of the Andes, risale al 1962 e viene scritto in anni cruciali per gli africano-americani, quando la lotta per i diritti civili ottiene finalmente dei primi risultati. Sono gli anni della lenta desegregazione razziale, dei sit-in, dei Freedom Rides, dell’integrazione razziale nelle università del Sud degli Stati Uniti, gli anni in cui si va affermando la carica inizialmente eversiva del free jazz. Sono anni in cui anche la Chiesa cattolica va trasformandosi, spalancando la strada a una nuova interpretazione della musica sacra. La creazione della Williams riflette però più il contesto socio-politico che quello religioso: St. Martin de Porres (Black Christ of the Andes) –un inno per sedici voci in onore di San Martin de Porres (domenicano peruviano, primo santo di colore della chiesa cattolica, nato a Lima nel 1579,  figlio di un nobile spagnolo e di una schiava africana, canonizzato da Giovanni XXIII il 6 maggio 1962), su testo del gesuita Anthony Woods, confessore della compositrice- nasce nel 1962, prende forma definitiva nel corso del 1963 (quando viene anche inciso), per essere presentato nel 1964, quando da pochissimi mesi è stata approvata in seno al Concilio Vaticano II la riforma liturgica inserita nella costituzione intitolata Sacrosanctum Concilium. Quest’ultima prevede l’utilizzo di altre lingue oltre il latino (36.1  L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini. 36.2 Dato però che, sia nella messa che nell’amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l’uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti … 54. Nelle messe celebrate con partecipazione di popolo si possa concedere una congrua parte alla lingua nazionale, specialmente nelle letture e nella « orazione comune » e, secondo le condizioni dei vari luoghi, anche nelle parti spettanti al popolo, a norma dell’art. 36 di questa costituzione … 63. Non di rado nell’amministrazione dei sacramenti e dei sacramentali può essere molto utile per il popolo l’uso della lingua nazionale; le sia data quindi una parte maggiore secondo le norme che seguono: a) nell’amministrazione dei sacramenti e dei sacramentali si può usare la lingua nazionale a norma dell’art. 36;) e agli articoli 37 e 38 nella sezione D (Norme per un adattamento all’indole e alle tradizioni dei vari Popoli) concede che la liturgia si apra all’alterità culturale (37. La Chiesa, quando non è in questione la fede o il bene comune generale, non intende imporre, neppure nella liturgia, una rigida uniformità; rispetta anzi e favorisce le qualità e le doti di animo delle varie razze e dei vari popoli. Tutto ciò poi che nel costume dei popoli non è indissolubilmente legato a superstizioni o ad errori, essa lo considera con benevolenza e, se possibile, lo conserva inalterato, e a volte lo ammette perfino nella liturgia, purché possa armonizzarsi con il vero e autentico spirito liturgico. 38. Salva la sostanziale unità del rito romano, anche nella revisione dei libri liturgici si lasci posto alle legittime diversità e ai legittimi adattamenti ai vari gruppi etnici, regioni, popoli, soprattutto nelle missioni; e sarà bene tener opportunamente presente questo principio nella struttura dei riti e nell’ordinamento delle rubriche), includendovi anche la musica e la sua strumentazione (118. Si promuova con impegno il canto religioso popolare in modo che nei pii e sacri esercizi, come pure nelle stesse azioni liturgiche, secondo le norme stabilite dalle rubriche, possano risuonare le voci dei fedeli. 119. In alcune regioni, specialmente nelle missioni, si trovano popoli con una propria tradizione musicale, la quale ha grande importanza nella loro vita religiosa e sociale. A questa musica si dia il dovuto riconoscimento e il posto conveniente tanto nell’educazione del senso religioso di quei popoli, quanto nell’adattare il culto alla loro indole, a norma degli articoli 39 e 40. Perciò, nella formazione musicale dei missionari si procuri diligentemente che, per quanto è possibile, essi siano in grado di promuovere la musica tradizionale di quei popoli, tanto nelle scuole, quanto nelle azioni sacre. 120. Nella Chiesa latina si abbia in grande onore l’organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti. Altri strumenti, poi, si possono ammettere nel culto divino, a giudizio e con il consenso della competente autorità ecclesiastica territoriale, a norma degli articoli 22-2, 37 e 40, purché siano adatti all’uso sacro o vi si possano adattare, convengano alla dignità del tempio e favoriscano veramente l’edificazione dei fedeli)[33].

Nel 1964, la Williams incide tre altri lavori corali: The Devil, su testo di Ada Moore; Anima ChristiPraise The Lord, questi ultimi due arricchiti da un accompagnamento strumentale predisposto da Melba Liston e incisi da un gruppo che comprende Larry Gales al contrabbasso, Grant Green alla chitarra, Budd Johnson al sassofono tenore e al clarinetto basso. Fra il 1966 e il 1967, nel corso di un periodo d’insegnamento presso un liceo di Pittsburgh, scrive la sua prima Messa (poi denominata Pittsburgh Mass): nel frattempo, John Coltrane ha pubblicato A Love Supreme, Vince Guaraldi ha realizzato il Grace Cathedral Concert a San Francisco, Lalo Schifrin e Paul Horn hanno composto e inciso Jazz Suite on the Mass Texts; soprattutto, Duke Ellington ha presentato e inciso, ancora alla Grace Cathedral di San Francisco, A Concert of Sacred Music, primo capitolo di una trilogia sacra che si concluderà nel 1973. Ancora prima, però, Dave Brubeck (un autore, pianista e improvvisatore assai sottovalutato e tutto da riscoprire, ristudiare, rivalutare) ha scritto un cospicuo numero di pagine che costituiranno in seguito oratorî a sfondo sociale, politico e religioso come i già menzionati The Gates of JusticeLight in the Wilderness: An Oratorio for TodayTruth Has Fallen (ai quali si aggiungeranno, oltre ai già citati altrove, lavori come Pange Lingua VariationsVoice of the Holy SpiritPsalm 23Ave MariaConcordi LætitaThe CommandmentsCredoBenedictionSleep, Holy Infant, SleepPrecious Gift His Wondrous Birth). Soprattutto, Father Clarence Rufus Joseph Rivers ha creato la musica per la prima Messa in inglese dopo il Concilio Vaticano II e ha dato fondamentale impulso alla definizione della cosiddetta Black Spirituality nonché di una liturgia cattolica africano-americana in cui non solo la musica (con la commistione, nel cosiddetto American Mass Program, fra spiritual, gospel, jazz e canti gregoriani), ma tutto lo spettro della cultura africano-americana si ritaglia un ruolo di affascinante teatralità e di poderosa espressività. In tale contesto, Mass soffre in modo meno marcato dei problemi di St. Martin de Porres (pagina successivamente inserita in un’eccellente realizzazione discografica come Black Christ of the Andes), cioè di un’armonia complessa e sostenuta da una elastica pulsazione ritmica che non riesce a trovare un’adeguata realizzazione da parte degli interpreti (nel caso di St. Martin de Porres i Ray Charles Singers, diretti da Howard Roberts). Il lavoro fa uso di linee vocali all’unisono, di canto scat e di una scrittura armonica più semplice, come se l’autrice –in una sorta di personale apostolato- volesse rendere il proprio lavoro, ma soprattutto la sua missione religiosa, più facilmente percepibile e comprensibile.

Il 5 febbraio 1967, la Williams organizza un concerto alla Carnegiel Hall, dedicato a composizioni religiose di più autori cattolici e intitolato Praise the Lord in Many Voices; vi contribuisce inoltre con alcune sue composizioni: JoycieThank You JesusOur Father (che farà poi parte di Mass), Praise the Lord, che presenta a capo di un gruppo che comprende Julius Watkins al corno francese, Bill Salter al contrabbasso, Percy Brice alla batteria, Ralph MacDonald alla conga e le voci di Leon Thomas e Honi Gordon. Nel 1968, grazie a un sacerdote, Father Robert Kelly della St. Thomas the Apostle Church di Harlem, riceve una commissione per la celebrazione della Quaresima da cui nasce Mass for Lenten Season; il lavoro (eseguito per sei domeniche successive presso la stessa chiesa di St. Thomas, con una strumentazione che, oltre alle voci, richiedeva sassofono, flauto, chitarra, pianoforte, contrabbasso e batteria), che fa uso anche di materiali appartenti a Mass (come O. W., l’iniziale blues improvvisato), si sviluppa in dieci sezioni, concludendosi con una rielaborazione dell’inno We Shall Overcome.

(Gianni Morelenbaum Gualberto)

Note:

[22] Non è forse casuale che proprio questo elemento sia stato quello che più è stato negato dalla cultura bianca, che su tale negazione fondava buona parte delle motivazioni con cui giustificare la schiavitù degli aficano-americani e la loro segregazione. A tal proposito basti ricordare cosa affermava Hegel in un testo come Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte (ed. Lasson, Leipzig, 1917, trad. it. Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze, 1941): “Nel caso dei negri, l’elemento caratteristico è dato proprio dal fatto che la loro coscienza non è ancora giunta a intuire una qualsiasi oggettività – come, per esempio, Dio, la legge: mediante tale oggettività l’uomo se ne starebbe con la propria volontà e intuirebbe la propria essenza. Nella sua unità indistinta, compressa, l’africano non è ancora giunto alla distinzione fra se stesso considerato ora come individuo ora come universalità essenziale, onde gli manca qualsiasi nozione di un’essenza assoluta, diversa e superiore rispetto all’esistenza individuale. Come già abbiamo detto, il negro incarna l’uomo allo stato di natura in tutta in tutta la sua selvatichezza e sfrenatezza. Se vogliamo farci di lui un’idea corretta, dobbiamo fare astrazione da qualsiasi nozione di rispetto, di morale, da tutto ciò che va sotto il nome di sentimento: in questo carattere non possiamo trovare nulla che contenga anche soltanto un’eco di umanità. Le relazioni circostanziate dei missionari confermano in pieno la nostra asserzione e sembra che solo il maomettismo sia ancora capace di avvicinare in qualche modo i negri alla cultura. I Maomettani sanno meglio degli Europei anche come penetrare nell’interno del paese.^

“Questo stadio della cultura è riconoscibile poi più da vicino anche nella religione. La prima cosa a venirci in mente, quando parliamo di religione, è che l’uomo abbia coscienza di un potere superiore (fosse pure inteso come potenza solo naturale),al cospetto del quale egli si pone come qualcosa di più debole, inferiore. La religione esiste con la consapevolezza che esiste qualcosa di più elevato rispetto all’uomo. Tuttavia già Erodoto (II, 33) ha parlato dei negri come maghi. Ora, nella magia non si trova la rappresentazione di un dio, di una credenza morale; al contrario, la magia fa vedere che proprio l’uomo è la potenza suprema, che si comporta verso la potenza della natura solo alla maniera di qualcuno che dia ordini. Perciò qui non si parla né una venerazione spirituale di Dio né di un regno del diritto. Dio tuona, ma non viene riconosciuto; per lo spiriti umano è necessario che Dio sia qualcosa di più che una creatura tonante, tuttavia non è questo il caso dei negri. (…)

“Tuttavia, proprio perché l’uomo è posto come entità suprema, ne viene che egli non ha nessun rispetto di se stesso: infatti, solo con la coscienza che esista un essere superiore l’uomo arriva a guadagnare una veduta capace di assicurargli un autentico rispetto. Se l’arbitrio è l’Assoluto, se l’arbitrio è l’unica salda oggettività che ricada sotto l’intuizione, è impossibile che su questo piano lo spirito abbia una qualsiasi nozione di universalità. Perciò i negri possiedono quel completo disprezzo per gli uomini che forma propriamente la loro determinazione fondamentale dallato del diritto e della morale. Non c’è nemmeno un sapere dell’immortalità dell’anima, sebbene i morti appaiano come fantasmi. La mancanza di valore dell’uomo si spinge fino all’incredibile; la tirannia non è considerata un’ingiustizia e mangiare carne umana passa per un costume affatto diffuso e lecito. Da noi è l’istinto che ci trattiene dal fare altrettanto, sempre che, in generale, si possa parlare d’istinto nel caso dell’uomo. Tuttavia, ciò non avvenne fra i negri e la pratica di divorare l’uomo sta in stretto rapporto con il principio africano  in genere, per il negro, fermo alla sfera dei sensi,  la carne umana è solo qualcosa di sensibile, è una carne qualsiasi. In occasione della morte, di un re sono macellati e divorati migliaia di uomini; i prigionieri vengono ammazzati e la loro carne venduta al mercato; di regola, il vincitore mangia il cuore del nemico ucciso. Durante lo svolgimento di una magia accade assai spesso che il mago ammazzi il primo venuto e ne dia le membra in pasto alla folla.

“Un altro elemento caratteristico nella considerazione dei negri è la schiavitù. I negri sono condotti in schiavitù dagli Europei e venduti in America. Ciò nonostante, la loro sorte è quasi peggiore in patria, dove vivono una schiavitù altrettanto assoluta. Infatti, il fondamento della schiavitù in genere è che l’uomo non abbia ancora coscienza della propria libertà e così decada a una cosa, a un’entità senza valore. Fra i negri, i sentimenti morali sono debolissimi o, per dir meglio, affatto inesistenti. I genitori vendono i loro figli e questi fanno altrettanto con i loro genitori. A seconda di chi sia il primo a impadronirsi dell’altro. L’azione profonda della schiavitù cancella tutti i vincoli del rispetto morale che portiamo gli uni verso gli altri, e ai negri non viene neppure in mente di aspettarsi per sé quel rispetto che noi possiamo esigere dal prossimo. La poligamia dei negri ha spesso il fine di procreare molti figli, che possano essere venduti come schiavi, tutt’insieme o separatamente, e capita assai spesso di udire ingenui lamenti, come quello di un negro a Londra, il quale si doleva di trovarsi nella più completa miseria, perché aveva venduto ormai tutti i suoi parenti. Nel disprezzo dei negri per l’uomo, l’elemento caratteristico non è tanto il disprezzo della morte quanto l’incuranza per la vita. A tale incuranza per la vita dobbiamo ascrivere anche il grande coraggio dei negri, sostenuto da un’enorme forza fisica, che li spinge a farsi abbattere a migliaia nella guerra contro gli Europei. La vita ha, cioè, un valore solo quando abbia per fine qualcosa di degno. (…)

“Il fanatismo che può destarsi fra i negri, nonostante la loro abituale mitezza, supera ogni immaginazione. Un viaggiatore inglese racconta che allorché nell’Ashanti è decisa una guerra, son fatte precedere cerimonie solenni; fra queste, il rito di lavare con sangue umano le gambe della madre del re. Come preludio alla guerra, il re decide un attacco alla sua capitale stessa, quasi per arrivare al furore. (…)

“Da tutti questi tratti addotti in vario modo risulta che è la sfrenatezza a contrassegnare il carattere dei negri. questa condizione è incapace di sviluppo e di cultura; i negri sono sempre stati così come li vediamo oggi. L’unico legame essenziale che hanno avuto, e ancora hanno, con gli Europei è quello della schiavitù. Nella schiavitù i negri non vedono nulla di sconveniente, anzi accade addirittura che gli Inglesi, i quali si sono adoperati di più per l’abolizione del traffico degli schiavi e della schiavitù siano trattati come nemici. Per i re infatti, vendere i loro nemici prigionieri, o anche i propri sudditi, anziché ucciderli è un affare della massima importanza: e così la schiavitù ha destato maggiore umanità fra i negri.

“L’insegnamento ricavabile per noi dalla condizione di schiavitù fra i negri, il solo a costituire un lato interessante ai nostri occhi, è quello che conosciamo dall’idea che lo stato di natura come tale è lo stato di in assoluta e universale ingiustizia. Anche lo stato intermedio fra lo stato di natura e la realtà dello Stato razionale possiede momenti e tratti d’ingiustizia; perciò troviamo la schiavitù perfino nello Stato greco e in quello romano, così come troviamo la servitù della gleba fino ai tempi più recenti. Tuttavia, allorché esiste all’interno dello Stato, la schiavitù è, a sua volta, un momento di progresso rispetto all’esistenza sensibile, puramente isolata, è un momento di educazione, un modo di partecipare a una morale superiore e alla cultura che vi si accompagna. La schiavitù è in sé e per sé un’ingiustizia, poiché l’essenza dell’uomo è la libertà; tuttavia, bisogna che prima l’uomo divenga maturo per la libertà. Perciò l’abolizione graduale della schiavitù è qualcosa di più appropriato, di più corretto, che non la sua cancellazione improvvisa.”

[23] Cit. in Craig R. Prentiss, ‪Staging Faith: Religion and African American Theater from the Harlem Renaissance to World War II, New York University Press, New York 2013, pag. 36.^

[24] Craig R. Prentiss, op. cit., pag. 15.^

[25] Cit. in James C. Davis, ‪Commerce in Color: Race, Consumer Culture, and American Literature, 1893-1933, University of Michigan Press, Ann Arbor 2007, pag. 160.^

[26] Carter Godwin Woodson, The Mis-education of the Negro, 1933; vedi http://historyisaweapon.com/defcon1/misedne.html ^

[27] The Collected Poems of Sterling A. Brown, Northwestern University Press, Evanston, Ill. 1966, pag. 54.^

[28] JAZZ is my religion and it alone do I dig the jazz

clubs are my houses f worship and sometimes the concert halls

but some

holy places are too commercial (like churches) so I

don’t dig the

sermons there I buy jazz sides to dig in solitude Like

man/Harlem,

Harlem U.S.A. used used to be a jazz heaven where most of

the jazz

sermons were preached but now-a-days due to chacha

cha and

rotten rock ‘n’roll alotta good jazzmen have sold their

souls but jazz

is still my religion because I know and feel the message

it brings

like reverend Dizzy Gillespie/Brother Bird and

Basie/Uncle

Armstrong/Minister Monk/ Deacon Miles Davis/ Rector

Rollins/

Priest Ellington/ His funkness Horace Silver/ and the great

Pope

John, John COLTRANE and Cecil Taylor They

Preach A Sermon

That Always Swings!!

Yeah jazz is MY religion Jazz

is my story

it was my mom’s and pop’s and their moms and pops

from the days of Buddy Bolton who swung them blues to Charlie

Parker and

Ornette Coleman’s extension of Bebop Yeah jazz is my

religion

Jazz is unique musical religion the sermons spread

happiness and

joy to be able to dig and swing inside what a

wonderful feeling

jazz is/YEAH BOY!! JAZZ is my religion and dig this:

it wasn’t for

us to choose because they created it for a damn good

reason as a

weapon to battle our blues!JAZZ is my religion and its

international all the way JAZZ is just an Afroamerican

music

and like us its here to stay So remember that JAZZ is

my religion

but it can be your religion too but JAZZ is a truth that is

always

black and blue Hallelujah I love JAZZ so Hallelujah I

dig JAZZ so

Yeah JAZZ IS MY RELIGION…….^

[30] Brubeck delinea in modo estremamente pragmatico il rapporto fra spiritualità e jazz in termini musicali: There is a kinship between jazz, blues and spirituals because they spring from the same roots. Many jazz musicians performed in church before ever setting foot in a nightclub. Jazz can be fun, entertaining, sad or happy, but it can also be profound. Even though it may not be expressing a religious theme overtly, there is a spiritual quality in the best jazz improvisations that comes from deep within the soul of the player. In Corinthians 13 it says, “For now we see in a mirror, darkly, but then we will see face to face. Now I know only in part, then I will know fully even as I have been fully known.” I often think about that description because when I am improvising I feel as though I am looking through a glass darkly, but suddenly I may break into the light. Improvising in jazz can be a transforming experience. Having heard Mahalia Jackson at the Newport Jazz Festival and witnessing how the secular jazz audience took to her as if she were the greatest jazz singer of the day, I am convinced there is very little to differentiate the genres. I talked to Mahalia later that day, and she told me she didn’t really want to sing jazz and had explicitly avoided going in that direction. Her pianist…“swung” and made Mahalia swing as if they were a jazz duo. I once toured with Rosetta Tharpe and saw the same response from jazz audiences all over Europe. One of the earliest examples of a jazz composer’s writing in a specifically spiritual vein is Duke Ellington’s Come Sunday. It dates back originally to Black, Brown and Beige, one of Duke’s early major efforts. Also, “The Lord’s Prayer” from Ellington’s Sacred Concerts is very beautiful. There have been a number of jazz musicians who have written jazz masses—Billy Taylor, Mary Lou Williams, Louie Bellson come to mind, and I think one of the first was by a musician named Ed Summerlin. Of course, there is John Coltrane and the entire album of A Love Supreme that reaches for the sublime. I’ve always felt that Louis Armstrong’s inspired playing was a gift from heaven, and the genius of Art Tatum surely must have come from the Holy Spirit. How else can we explain what either of those geniuses could create? (“Dave Brubeck’s Jewish Music”, in Moment Magazine, Luglio-Agosto 2010) ^

[31] Whitney Balliet, Improvising: Sixteen Musicians and their Art. Oxford University Press, New York 1977, pagg. 159-160.^

[32] “The Classic Interview: Mary Lou Williams”, intervista realizzata da Les Tomkins al White House Hotel, nel Novembre 1969; da Crescendo International, no. 24, Novembre 1987, pagg 16–18.^

[34] An Afternoon With Mary Lou Williams, intervista di Stanley Dance del Gennaio 1964, ripubblicata da Jazz Journal International, no. 42 (Ottobre 1989) ^

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[...] prosegue l’analisi di Gianni M. Gualberto in merito  al tema che potrete continuare a leggere sul sito Free Fall Jazz. [...]