FREE FALL JAZZ

Alla seconda parte

Nell’aprile 1968, in seguito all’assassinio di Martin Luther King, Jr., la Williams compone due pagine in ricordo del leader africano-americano: If You’re Around When I Meet My Day e I Have A Dream, ambedue presentate per la prima volta da un coro di voci bianche in occasione della Domenica delle Palme dello stesso anno. Nel suo fervore religioso, l’autrice spera di potere scrivere ed esibirsi per il Papa a Roma e, per avvicinarsi all’Italia, accetta un prolungato, disastroso e poco lucroso ingaggio a Copenhagen, città che la colpisce negativamente per la sua eccessiva laicità: I’m in an almost all atheist country. My two bass men do not believe in God and I could feel this coldness in their music before they told me. Nel gennaio del 1969 riesce finalmente a visitare Roma, dove trascorre molto tempo con una serie di sacerdoti con cui già corrispondeva da tempo e che si aspetta possano aiutarla a presentare la propria musica in Vaticano. La vicenda è significativa, perché svela non solo il conservatorismo della Curia romana ma anche il paternalistico razzismo che molti esponenti della stessa nutrivano nei confronti degli individui di colore. L’Abate Rembert Weakland, da poco Primate della Confederazione Benedettina e futuro Arcivescovo di Milwaukee, ottimo pianista e musicologo, decide di presentare (e officiare) la Mass for Lenten Season (ridenominata Jazz for the Soul) al Pontificio Collegio Pio Latino Americano e fa menzione di questo suo desiderio al Cardinale Angelo Dell’Acqua, vicario di sua Santità per la diocesi di Roma: questi inizialmente si oppone fieramente all’introduzione di una batteria in un rito religioso per poi opporsi ancora più nettamente al fatto che la liturgia della messa possa avere luogo con il commento musicale scritto dalla compositrice. L’Abate Weakland è costretto a recedere dalle sue intenzioni: Mass for Lenten Season viene eseguita, non all’interno della liturgia ma come lavoro musicale concertistico a sé stante. Attraverso Vincent O’Keefe, assistente del generale dei gesuiti Pedro Arrupe, la Williams viene presentata all’Approdo Romano, un’associazione promossa dalla nobiltà romana per assistere, tra l’altro, i seminaristi africano che studiavano a Roma (come commentava Paolo VI nel suo discorso del 14 gennaio 1965 al patriziato e alla nobiltà romana: Ci piace salutare la novissima istituzione giovanile, che s’intitola «Approdo Romano», e che si propone principalmente l’assistenza agli Studenti universitari esteri, anche non cattolici, e l’animazione culturale e spirituale della vostra gioventù, che sappiamo numerosa e volonterosa riunita intorno a così promettente e geniale insegna. Benissimo! e coraggio diciamo a codeste e alle altre innumerevoli iniziative, che tonificano e ravvivano lo spirito cattolico di Roma): per i membri dell’associazione presenta così la Mass for Lenten Season all’Oratorio del Caravita, con l’aiuto di strumentisti e cantanti scelti fra gli studenti del North American College di Roma e del Collegio di Propaganda Fide. La reazione dei presenti, sull’appoggio dei quali la Williams contava per presentare la propria musica al Papa, è fredda, il lavoro viene considerato non adatto ad essere eseguito per Paolo VI che, nel frattempo, ha incontrato l’autrice in un’udienza semiprivata, senza manifestare particolare interesse per le sue richieste. Dopo una serie di piccoli ingaggi e qualche registrazione per la Radio Vaticana (The Italians are starved for jazz, love it), Mary Lou Williams torna negli Stati Uniti nel marzo 1969 senza avere raggiunto il suo scopo ma con una commissione da parte di Monsignor Joseph Gremillion, Segretario della Pontificia Commissio Justitia et Pax per la realizzazione di una Messa che avrebbe dovuto denominarsi Mass (o Musicfor Peace (come scrive lei stessa al suo confidente spirituale, Father Peter O’Brien: … a big-shot priest asked if I’d write another Mass for the peace of the world. He’d pay me—what! ha! and will use his influence to get it to the Pope). Alla realizzazione di tale nuovo lavoro trascorre quasi tutto il resto dell’anno (I didn’t quite know how to start, but I prayed a lot about it and began to feel pretty holy, although I wasn’t really. In trying to write that mass I learned something pretty important—that jazz is a very spiritual music. The roots of it came out of the suffering of the black slaves, and it has kept that spiritual feeling right up through Coltrane. There is a reason why not everybody can play jazz—the spiritual feeling has to be there. God did blacks a favor by creating jazz especially for them. God helps people through jazz; people have been healed through it. It has happened to me, rip. in Lowell D. Holmes, John W. Thomson. Jazz Greats. Holmes and Meier Publishers, Incorporated, New York 1986): scartata l’idea, ormai chiaramente irrealizzabile, di presentarlo a Roma alla presenza del Pontefice, la Williams rifiuta la proposta di eseguirlo inizialmente a Harlem, reputando che ciò rappresentasse, ancora una volta, un esempio di ghettizzazione dell’arte africano-americana. Una prima versione di Mass for Peace viene così eseguita il 15 luglio 1969 presso la Holy Family Church sulla 47ma Strada Est, nei pressi delle Nazioni Unite, in occasione di un tributo alla memoria di Tom Mboya, il leader nazionalista kenyota assassinato a Nairobi pochi giorni prima. Subito dopo, l’autrice decide di allargare l’opera, convinta che essa potesse avere un senso solo come parte inscindibile della liturgia della Messa cattolica: com’era accaduto a Roma, ciò costituisce il maggiore ostacolo anche presso la gerarchia ecclesiastica statunitense, tant’è che Music for Peace (titolo con cui viene presentata la nuova versione, che poi verrà più comunemente divulgata come Mary Lou’s Mass, a partire dalla bella coreografia che ne trarrà Alvin Ailey) viene presentata in forma di concerto alla St. Paul’s Chapel della Columbia University nell’aprile 1970, quando una buona parte del materiale musicale è stato inciso (con la partecipazione del contrabbassista Chris White, del chitarrista Sonny Henry, del percussionista Abdul Rahman, del flautista Roger Glenn, dei cantanti Carl Hall, James Bailey, Milton Grayson). Altre composizioni vengono aggiunte e incise (anche per la coreografia di Ailey) con la partecipazione della bassista e cantante Carline Ray, del chitarrista Leon Atkinson, del batterista Al Harewood, dei cantanti Eileen Gilbert, Randy Peyton, Christine Spencer, oltre a David Amram al corno francese e altro materiale ancora trova posto nell’incisione della Smithsonian Folkways intitolata Mary Lou’s Mass e che comprende pagine autonome, altre tratte da Pittsburgh Mass, da Mass for Lenten Season e da Mass for Peace (una pratica di citazionismo del tutto funzionale e affatto comune nel contesto africano-americano). Nella sua forma finale, con un orecchio attento ai nuovi linguaggi musicali giovanili (grazie all’intervento dell’arrangiatore Bob Banks) allo scopo non solo di rendersi più “leggibile” ma anche di cogliere le inquietudini della società americana traumatizzata dal Vietnam e dalle tensioni razziali, Mary Lou’s Mass sarà presentata nella cattedrale di San Patrizio, a New York, solo il 18 febbraio 1975. Nel frattempo, la Williams la esegue in numerose chiese degli Stati Uniti, non senza manifestazioni di perplessità quando non di vera e propria ostilità. Simile accoglienza aveva caratterizzato anche un lavoro assai più impegnativo e complesso, anch’esso influenzato dal rock, dal gospel, dal blues e dal jazz, come la teatrale, brillante e drammatica Mass di Leonard Bernstein, scritta per l’inaugurazione, l’8 settembre 1971, del John F. Kennedy Center for the Performing Arts a Washington e dedicata alla memoria di John F. Kennedy e Giovanni XXIII: i cattolici americani mostrano un non trascurabile disagio nei confronti della Chiesa postconciliare, che, ad esempio, colpisce molto meno i Sacred Concert di Duke Ellington, probabilmente perché visti come semplici pagine musicali d’ispirazione genericamente religiosa; lo stesso Ellington aveva d’altronde più volte sottolineato di non avere avuto alcuna intenzione di comporre lavori specificamente, volutamente e autenticamente liturgici. Ancora oggi il jazz è avvertito come un’intrusione all’interno della Chiesa Cattolica, non solo negli Stati Uniti. La Williams sosteneva che le gerarchie cattoliche lo considerassero “musica pagana” e viene fin troppo facile pensare che negli Stati Uniti dove da poco era cessata ufficialmente la pratica della segregazione, la penetrazione della cultura africano-americana all’interno di determinate aree del culto non fosse facilmente accettata. L’ostilità delle gerarchie della Chiesa nei confronti delle percussioni e della loro presenza in un luogo di culto sembra indicare un’idea delle culture africane e africano-americana esclusivamente legata a una concezione (negativa, ça va sans dire) del primitivo e del tribale, estrema propaggine di un pensiero che, sin da San Girolamo (I giovani che nelle chiese attendono al servizio delle salmodie, devono sapere che non si deve cantare per Dio con la voce, ma con i cuori; non spalmare la gola e la voce con medicamenti, siccome si usa fare nei teatri, così che in chiesa risuonino teatralmente melodie e canzoni tornite), ha emarginato la musica considerata esoterica dal culto: La Chiesa non conosce per la lode di Dio l’uso di strumenti musicali…, anche per non ridestare l’impressione di una ricaduta nel giudaismo, scriveva Tommaso d’Aquino, richiamando così quella “sensualità”, quella “lascivia” che veniva rimproverata (sino ai tempi del nazismo) agli ebrei e che, in generale, veniva attribuita alle popolazioni in qualche modo reputate inferiori e tribali, secondo una concezione che risale all’antico pensiero greco (già Aristotele distingue la musica dorica, in quanto musica “etica”, da quella frigia “orgiastica e patetica”, ed esclude quest’ultima dall’educazione, per cui egli si serve significativamente anche del mito del rifiuto del flauto da parte di Atene; egli vede tale musica in contrasto con l’umanità spiritualizzata simboleggiata da Atene, laddove si evidenzia l’eco di antichi contrasti culturali e cultuali. La musica della Lidia è invece per Aristotele utile sotto il profilo pedagogico per l’abbinamento del contenuto estetico a quello pedagogico. Altresì egli, per la distensione (catarsi), ammette anche la musica frigia. Aristotele si pone in contrasto con il Platone della Politeia, che voleva escludere dallo stato ideale il tono lidico misto, illidico solenne, lo ionico e il lidico, e intendeva che rimanesse soltanto la musica dorica e la frigia; quanto a strumenti, dovevano restare soltanto la lira e la cetra in città, e una specie di flautino in campagna. Appare qui evidente, dietro la deduzione filosofica, un fondamento mitico-religioso: “Non facciamo qui, o mio caro, nulla di nuovo, riconoscendo ad Apollo e ai suoi strumenti la preminenza su Marsia e i suoi strumenti”, in Repubblica III 39ge). Come scrive in modo esplicito Joseph Ratzinger in La festa della fede (Milano; Jaca Book 1984): In Tommaso (o piuttosto nella tradizione da lui rilevata) questa decisione di fatto riveste certamente un’importanza fondamentale: la musica strumentale è posta nella morsa della legge, che non può valere nella lettera, ma solo nello spirito; la problematica della musica sacra è in questo modo coinvolta nella problematica tra legge e Vangelo, il cui confronto presenta il luogo teologico dal quale si esamina il problema. Il confinamento della musica sacra nella “legge” riceve il suo significato concreto dal fatto che, nella tradizione platonica interpretata dai Padri, il confronto fra legge e Vangelo si identifica largamente con il confronto filosofico tra sensibile e spirituale; allora la musica (e specialmente quella strumentale) entra nell’ambito del sensibile, e la spiritualizzazione del Vangelo dev’essere allora intesa più o meno come un abbandono della realtà sensibile dei toni a favore del puro spirituale, della nuda parola. (…) In questo senso l’accettazione della musica nella liturgia dev’essere un’accettazione nello spirito, una trasformazione, che significa parimenti morte e resurrezione. Per questa ragione la Chiesa dovette essere critica nei confronti della musica che essa aveva già trovato presso i vari popoli; essa non poteva ammettersi immutata nel santuario: il culto musicale delle religioni pagane ha, nell’esistenza umana, un altro posto e un altro valore, diversi dalla musica della glorificazione di Dio tramite la creazione.

Essa tende in molti casi, attraverso il ritmo e la melodia, a provocare l’estasi dei sensi; con ciò non innalza però veramente i sensi allo spirito, ma tenta di avviluppare lo spirito nei sensi e di liberarlo con questo tipo di estasi. Ma in siffatta distrazione dei sensi, che ritorna nella moderna musica ritmica, “Dio” e la salvezza dell’uomo sono collocati assolutamente altrove che nella fede cristiana. La coordinata dell’esistenza e del cosmo nel suo complesso è tracciata diversamente, anzi in senso inverso. Qui la musica può effettivamente trasformarsi in una “tentazione” che conduce l’uomo a una meta sbagliata. Qui non si fa della musica diretta alla purificazione, ma allo stordimento. Se residui della musica pagana dell’Africa passano così facilmente nella musica pagana postcristiana, se ne può trovare la ragione estrinseca nell’analogia di determinati elementi formali; la motivazione più profonda consiste però nel contatto fra impostazioni spirituali di fondo, di una concezione della realtà che può essere in definitiva “pagana” e pertanto primitiva nel bel mezzo dell’illuminismo di un mondo dominato dalla tecnologia. La musica che intende diventare mezzo di adozione abbisogna di purificazione; soltanto così può essa stessa purificare ed “elevare”.

(…)La Costituzione Liturgica contiene l’indicazione di dimostrare “il meritato apprezzamento” della tradizione musicale di “alcuni paesi, specialmente nelle missioni“, tanto più dove tale tradizione “ha grande importanza nella vita religiosa e sociale”. Ciò risponde all’idea di cattolicità del Concilio, la quale non solo non vuole veder distrutto, ma sanato, elevato e perfezionato “ogni elemento di bene presente e riscontrabile nel cuore e nell’anima umana e negli usi e civiltà particolari dei popoli”. Queste espressioni sono state giustamente accolte con favore nella teologia e nella pastorale, sebbene non si sia a volte riflettuto abbastanza che non si è con ciò dispensati dallo sforzo della purificazione. Colpisce però notevolmente il fatto che mentre giustamente ci si rallegra per l’apertura alle culture straniere, sembra si sia non di rado dimenticato che anche i paesi dell’Europa devono esibire una tradizione musicale che “ha una grande importanza nella vita religiosa e sociale“, e che esiste anzi qui una musica che è maturata dal cuore della Chiesa e dalla sua stessa fede. Non si può certamente sentenziare che questa grande musica sacra dell’Europa sia in genere musica della Chiesa, e non se ne può certo dichiarare conclusa la storia, a causa della sua grandezza. Ciò è impossibile, come è impossibile dichiarare concluse in genere le grandi figure della teologia latina per il magistero della Chiesa e per la struttura finale e definitiva della teologia. Ma è altrettanto chiaro che siffatta ricchezza, maturata dalla fede e che costituisce parimenti una ricchezza per tutta l’umanità, non dev’essere perduta per la Chiesa. O il timore riverenziale e uno “spazio proporzionato” nella liturgia (art. 119) dovrebbero spettare soltanto alla tradizione non cristiana? Si oppone fortunatamente a questa logica assurda lo stesso Concilio, che pretende la “massima diligenza” nella “conservazione e nella cura” di questo tesoro (art. 114). Ma si può veramente custodire e curare ciò che questa musica è soltanto se essa continua a essere preghiera sonora, gesto e glorificazione, se essa risuona là dove è nata, nel culto divino della Santa Chiesa.

È ben probabile che le gerarchie del Vaticano si lasciassero ingannare dall’”accessibilità” della musica liturgica scritta dalla Williams, una “facilità” apparente che l’autrice aveva perseguito non solo per veicolare più facilmente il credo religioso ma che era spesso stata sua caratteristica sin dagli anni in cui aveva dimostrato di essere fra gli artisti più avanzati e sofisticati nel trapasso dallo Swing al be bop: un atteggiamento prudente, di chi non voleva infrangere il legame comunitario fra musicisti e pubblico. Non è casuale, probabilmente, che la Williams, fortemente critica nei confronti del cosiddetto free jazz, dimostrasse invece interesse per il rhytm’n’blues e per il neonato rock’n’rollI extracted some tunes from my nephew and I found these kids are creating like jazz musicians did in the thirties. They don’t know what they are doing, but if you ask them to create a song about a rose or a picture, they create just like Leadbelly or somebody like that. These rock’n’roll kids say their music is modern and that music like Ornette Coleman’s is corny (…) this rock ‘n’ roll is taking the place of the earlier era’s jazz, jazz that is losing the heritage (…). It isn’t corny and pushing over the beat, and if you listen careful it has an awful lot of soul. My nephew had a number with a release of a kind I’d been trying to write for fifteen years. “My goodness,” I said, “I’m going to steal that!” (…) Why I think their’s may be the music of the next era is because jazz musicians became too evil. Before jazz was a matter of love. There’s a lot of music now that is played for the musicians themselves, not for the people who are listening[34]. Il fatto che la Williams attribuisse un tratto malefico all’”incomunicabilità” e all’individualismo del free jazz, opposto al jazz come “matter of love”, sottolinea la sua concezione del jazz come strumento di comunicazione e mediazione fra la comunità e l’elemento “divino”. Lei stessa, d’altronde, nel corso della sua conversione religiosa, si era ritirata dal concertismo sostenendo proprio che la scena musicale non le procurava più alcuno stimolo spirituale: Jazz music doesn’t just happen by itself. You don’t play to an audience, you play with them. There is something like a conversation between you and the people listening. The audience gives out energy and you do the same. You feel it back. And when you’re playing you feel like you’re feeding them love. Because that’s what music really is: love[35]. In altra occasione (1979/80, con Dorothy Antoinette Handy) era ancora più esplicita: The term jazz is perhaps corny and can have derogatory meanings, but I keep it because our music comes under the heading of jazz. We Americans have supported European music for centuries, but we are too stupid to support what was created here in America. Not everyone, of course. The Guggenheim Foundation gave me two grants so I could give time to my jazz composition. Jazz was created out of suffering by the early black American slaves. Not by just one person, but by an entire race of people from the time of the spirituals up to Dizzy Gillespie/Charlie Parker era. Then it all stopped. Everybody got hung up on the title jazz. They were ashamed of the blues and some were ashamed of the spirituals, not realizing that it is important to have the spiritual and blues feeling in the music[36]. Ancora una volta troviamo, per quanto fra le righe, un riferimento al Black sacred cosmos, ad un modo di intendere i valori spirituali (peraltro evidente in tutti i lavori liturgici della Williams, per quanto legati alla sua conversione al Cattolicesimo) che sin dalle proprie fondamenta proclama un’inevitabile e naturale estraneità rispetto ai valori della tradizione bianca e che nella musica trova una voce tradizionale naturale e spontanea che per la Williams non può che venire adulterata dal sistema sociale di origine europea: I’m glad that I didn’t have any formal training. It’s the type of music where you need only a few lessons to help you learn the instrument so you can execute your ideas. The music comes
from the mind, the heart, and the fingertips. It comes faster than lightning. The exercises in classical music that they give you in school destroy the natural feelings. When you study too much of the classics, you have a tendency to put rims and fancy things into jazz. But that’s wrong. The music is spiritual. It came from spirituals, ragtime, Kansas City swing, and bop, which is when we lost our creative artists. After bop they began going to school. This destroyed that healthy feeling in jazz (…) What you’re hearing today is those exercise books from pianists who went to school[37].

L’intera, sottovalutata produzione religiosa di Mary Lou Williams rielabora in chiave sofisticata quanto attuale la tradizione orale africano-americana, rimettendo al centro della musica improvvisata non solo forme funzionali date per esaurite, ma soprattutto la spiritualità di derivazione africana e l’eredità religiosa sviluppatasi nel corso della schiavitù negli Stati Uniti (come scriveva Tammy Kernodle in Soul on Soul: The Life and Music of Mary Lou Williams, Northeastern Music Press, 2004: (…) the success of the performance at St. Patrick’s was not simply a question of the acceptability of jazz. It represented the culmination of Mary’s efforts to alter the traditional attitudes of the Catholic Church toward its black parishioners. Although the history of black Catholics in American can be traced back to before the Civil War, the church leadership had not sought to fully integrate black parishioners into the priesthood and church leadership. Mary knew that getting this work performed in the stronghold of New York Catholicism meant not only the acceptance of jazz as a viable art form but the acknowledgement of the cultural and spiritual contributions of black Catholics such as herself). Al contempo, da tutt’altro punto di vista, nell’uso della tradizione orale africano-americana essa differisce profondamente dalla tradizionale liturgia cattolica (che, naturalmente, è assai più letterale che orale, legata a una testualità che difficilmente trova spontaneità nel connubio con gli accenti della tradizione musicale africano-americana), rinnovandone la ritualità e rievocando i complessi rapporti intercorsi fra la cultura africano-americana e la tradizione cristiana. Tale operazione non va confusa con il cosiddetto soul-jazz degli anni Sessanta e il suo uso di materiali tratti dal gospel, per quanto la Williams alla fine, nella cosiddetta Mary Lou’s Mass, arrivi, nel proprium più che nell’ordinarium, a creare parzialmente una sua personale rilettura della liturgia cattolica, nei testi (Praise the Lord, adattamento del Salmo 148; In His Day, dal Salmo 72:7 e dal Vangelo secondo Giovanni, 14:27; Our Father, dal Vangelo secondo Matteo, 6:9-13; Lazarus, dal Vangelo secondo Luca, 16:9-13; Lamb of God, dal Vangelo secondo Giovanni, 1:29; Holy Holy Holy, dal Salmo 34:14; Benedictus, dal Vangelo secondo Matteo, 21:9. A ciò si aggiunga la traduzione dal latino in inglese dei testi ordinari della Messa, realizzata da Robert Ledogar) come nelle musiche, facendo uso di una molteplicità di materiali appartenenti alla tradizione popolare africano-americana, molti dei quali (come nel caso del gospel) di larga diffusione nel periodo in cui la Messa veniva composta. Ciò spiega forse la difficoltà di riproporre il lavoro ai nostri giorni: per quanto esso presenti una sorta di vivace compendio enciclopedico delle principali fonti popolari della musica africano-americana, il loro trattamento può risultare datato. Cionostante, è francamente interessante notare come la Williams faccia uso di tratti tipici della tradizione africano-americana, dallo schema dei song in 32 battute o del blues in 12 battute alla pratica del call and response (KyrieThe Lord SaysPraise the LordSanctus) alla libertà che lascia agli interpreti (che hanno anche ampia facoltà di improvvisare, così come la partitura non offre alcuna indicazione specifica sul tipo di voci richieste) all’uso della voce (che fa evidente riferimento a pratiche esecutive tradizionali africano-americane). Notevole è anche la varietà stilistica: l’autrice fa uso di materiali tratti dal blues, dallo Swing, dagli spiritual, dal gospel, dal be bop, dal rhythm’n’blues e persino dal rock’n’roll. L’influenza devozionale è ciononostante evidente e ne fa un caso pressoché unico fra le grandi figure del jazz, non perché esse non avessero un credo religioso ma perché la Williams ne fa un tratto primario della sua creatività: quella che potrebbe sembrare una posizione del tutto personale, diventa invece il paradigma di un recupero profondo di tradizioni mai scomparse dalla cultura popolare africano-americana ma situate in un costante fondale (You see, the music has healing powers in it. Everything you talk about is in it, healing the soul and all that, and people have forgotten to listen to it as a conversation. If you listen to it you’ll find that it has a story, da W. Royal Stokes, The Jazz Scene, Oxford University Press, 1991). La Williams crea un’identificazione fra la figura del compositore e quella del Black Preacher, trasformando e ampliando la tradizionale comunicazione vocale e orale attraverso un megafono di scrittura orchestrale: ella non si limita, infatti, all’adozione di formule comuni nella tradizione africano-americana (della cui drammatica semplicità sa comunque fare uso estremamente efficace), ma le altera, le arricchisce, le scompone con quella ricchezza e sofisticazione armonica, mai prive di immediatezza- che caratterizzeranno significative opere discografiche realizzate nella piena maturità, come ZoningFree SpiritsSolo Recital.

Dal 1977 al 1981, Mary Lou Williams insegna alla Duke University, a Durham, nel North Carolina, su invito del musicista e musicologo Frank Tirro. Essere cattolici nel North Carolina significa fare parte di una minoranza (oltretutto, all’interno di un’altra minoranza, quella africano-americana: il 70% della popolazione dello stato è bianca). Essere africano-americani e cattolici significa rientrare nella categoria di quell’”uomo invisibile” di cui parlava Ralph Ellison. Per quanto ben pochi luoghi degli Stati Uniti possano vantare un cospicuo numero di cattolici africano-americani, la loro influenza è stata estremamente significativa per il Cattolicesimo americano e per la cultura africano-americana, per quanto questo ruolo non venga loro riconosciuto, tant’è che Samuel Floyd, Jr. (Samuel Floyd, Jr., The Power of Black Music: Interpreting its History from Africa to the United States, Oxford University Press, New York 1995) afferma, ribadendo la tesi del Dio cristiano che viene a sostituire le divinità africane per gli schiavi trasportati nelle Americhe: This African–Catholic syncretism made the transition for Africans to Western culture easier in Latin America and in some parts of the United States, particularly New Orleans, and served as support for the continuation of African traditions in the New World. But it was Protestantism that fueled the religion and religious fervor of enslaved and free blacks in the United States. Protestantism, with its more direct access to the High God through song and praise, made possible the emergence of a new song for Africans, a new song in which they could express themselves as freely as they had in their homeland. Si tace, insomma, di quelle realtà afro-cattoliche (sia all’epoca della schiavitù che dopo) esistenti in numero non tracurabile in Louisiana, in Florida, nel Maryland e soprattutto le si esclude da qualsiasi ruolo e peso nella definizione della fisionomia e cultura africano-americane (fatto peraltro abbondantemente e chiaramente smentito da uno studio come quello di Cyprian Davis, History of Black Catholics in the United States, The Crossroad Publishing Company 1995: The story of the black Catholic community in the United States begins with the story of the Catholic church in Africa). Le opere liturgiche di Mary Lou Williams riportano invece di attualità non solo la dimensione spirituale che attraversa l’intera esperienza musicale africano-americana ma mettono a fuoco un aspetto ben particolare di essa. Trasferendosi a Durham, la Williams incontra una comunità afro-cattolica estremamente agguerrita e altrettanto conservatrice, per la quale la liturgia della Messa è un evento centrale e ineludibile della professione di fede. Anche Durham era stata investita dal ciclone del Concilio Ecumenico Vaticano II, e già nel 1966, poco dopo la chiusura del Concilio, il periodico della diocesi, North Carolina Catholics, pubblicava un articolo (“Music Guidelines Approved: Hymns to be Fostered, Varied Instruments Permitted,” North Carolina Catholics, 17 luglio1966) in cui si elencavano le pratiche musicali reputate accettabili dalla Commissione Diocesana per la Musica Liturgica. Quest’ultima incoraggiava il canto di innarî quali The Book of Catholic WorshipOur Parish Prays and SingsPeople’s Mass Book, nei quali la presenza della cultura africano-americana era pressoché inesistente. La Commissione aveva permesso anche l’uso dell’organo e di altri strumenti, purché utilizzati in modo adatto alla devozione. Per cui era probabilmente accettabile un lavoro come Missa Luba, che fa uso di percussioni africane, e poco più. Andare oltre avrebbe significato un inconcepibile atto di ribellione.

In quegli anni si affermava l’opera innovatrice del già citato Clarence Rufus Rivers, che sin dai primi anni Sessanta, grazie anche al proprio lavoro di compositore, aveva aperto ai cattolici americani le porte della tradizione musicale africano-americana, battendosi perché le pratiche devozionali degli africano-americani entrassero a far parte del mainstream religioso americano. Tale riformismo suscitava pochi consensi nel North Carolina, tant’è che il 3 aprile 1966 un articolo (“Forestall Innovations: Church Music’s Need for Quality Cited”) del North Carolina Catholics riportava: Archbishop William E. Cousins has issued a statement elaborating on “sacred music as applied to the mass” (…) “Spirituals and similar songs, including popular hit tunes, religious parodies of folk tunes, jazz and the like do not conform to the requirements for liturgical music laid down in recent official documents and hence are not to be used in our religious services.

Le battaglie per i diritti civili che hanno per protagonista Martin Luther King, Jr, così come l’approccio più militante di Stokely Carmichael e Malcolm X inducono la Chiesa cattolica a essere più sollecita verso la minoranza africano-americana. Nel 1974, Rivers –allora direttore del National Office for Black Catholics Department of Culture and Worship – dà alle stampe uno fra i suoi testi più significativi sulle pratiche cultuali africano-americane: Soulfull Worship. Egli sottolinea l’importanza dell’autentico culto africano-americano, ponendo il problema della definizione di un’autenticità culturale africano-americana all’interno della quale possa svilupparsi un forma cultuale cattolica. La chiave è nella parola “soul” e nell’uso che se ne può fare, nei molteplici significati che essa viene ad assumere all’interno della tradizione africano-americana. In una comunità religiosa africano-americana il “soul” si manifesta come improvvisazione musicale, come partecipazione congregazionale e comunitaria, come spontaneità, come preaching. Sottolinea Rivers: we are talking about the possibility of Afro-Americans being true to themselves and being—at the same time—Catholics. La sua è una vera e propria opera di liberazione culturale, che egli riassume così: We have been musically enslaved in the past because, until very recently, Church authorities discouraged the use of our rich Afro-American heritage. We tend to be enslaved in the present first: because most of us have not yet developed the facilities and skills to perform Afro-American music adequately; second: because some of us who are learning Black American music are not learning at the same time to use that tradition creatively…; and third: because some us think that we should not be free to borrow from other musical traditions. Egli ha dunque bisogno di “apostoli”, di “missionari” per rendere più coscienti di sé le comunità cattoliche africano-americane.  Mary Lou Williams sembra riflettere appieno il modello cui egli aspira, così come le comunità cattoliche del North Carolina ricordano proprio quelle delle quali egli critica la pigrizia intellettuale. Thomas P. Hadden, rettore della cattedrale di Raleigh, si mostra infatti ben poco entusiasta dei lavori liturgici che la Williams presenta: It was more like a performance,” he said, “because the people just didn’t know it…It went on for light years…I didn’t think it was congregational. I think it was too intricate…Legitimate or illegitimate, that’s my reaction (Douglas Shadle, Black Catholicism and Music in Durham, North Carolina, University of North Carolina, Chapel Hill 2006, pag. 46). Oltretutto, l’autrice insiste per far eseguire il lavoro di fronte all’altare, piuttosto che nella galleria abitualmente riservata al coro: In the choir loft, the music “goes over the people, they can hear it, and it helps them sing…I almost lost my life on the parishioners <pause> you know, both black and white, because it was a concert in their minds (ibidem., pag. 46). La Williams trova presso le comunità cattoliche africano-americane le stesse difficoltà già incontrate presso le gerarchie vaticane in Italia così come è fonte per lei di amara meraviglia che alle sue lezioni universitarie sia sempre più marcata la presenza di studenti bianchi, mentre fra gli studenti africano-americani non solo è forte la mancanza di interesse, ella nota, ma anche il distacco dalla loro tradizione culturale. Già nel 1957, E. Franklin Frazier, un ben noto sociologo africano-americano, in Black Bourgeoisie (traduzione di Bourgeoisie noire, scritto originariamente in francese; Free Press, Glencoe, IL 1957), aveva preso in esame i valori di quegli africano-americani, più economicamente stabili, cresciuti durante la Seconda Guerra Mondiale. Egli giungeva a conclusioni pessimistiche sul crescente materialismo generato da un’eccessiva faith in salvation by business, con tutto il consumismo che ne poteva conseguire. Egli notava inoltre che l’emergente borghesia africano-americana non era una classe produttiva, dipendendo interamente da salari e remunerazioni di datori di lavoro bianchi; sebbene a avesse meno problemi di qualsiasi altra l’avesse preceduta, essa, secondo Frazier, più di altre soffriva di un malessere spirituale e intellettuale dovuto all’abbandono della propria tradizione culturale e al rifiuto di identificarsi con le “masse nere”, pur rimanendo estranea alla società bianca e cadendo preda così di un “radicato complesso d’inferiorità”. È a questo mondo in evoluzione e in disfacimento, stretto fra aspirazioni sociali mai concretizzatesi dalla fine della schiavitù e la perdita dei valori tradizionali, che i lavori religiosi di Mary Lou Williams si rivolgono, lavori che non hanno solo un valore liturgico ma civile: Real jazz has love, and it has the spirit of God coming out of the suffering of black people. There are two things I express, the religious ideas and the musical ideas–both, otherwise it would be cold and have no feeling. When I’m playing, it seems as though someone else takes over. What I play comes from God, and I write it for the benefit of other people.

(Gianni Morelenbaum Gualberto)

Note:

[34] An Afternoon With Mary Lou Williams, intervista di Stanley Dance del Gennaio 1964, ripubblicata da Jazz Journal International, no. 42 (Ottobre 1989) ^

[35] Nina Winter, Interview with the Muse, Moon Books, Westmister 1978. ^

[37] Len Lyons, The Great Jazz Pianists, William Morrow & C., New York 1983.^

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