FREE FALL JAZZ

Kilimanjaro Darkjazz Ensemble

Guardandomi intorno, mi sono accorto che il nuovo Kilimanjaro Darkjazz Ensemble, ormai fuori da un po’, è stato generalmente accolto in due modi distinti e ben riconoscibili. Da un lato gli snob con la puzza sotto il naso che però non è Here The Dragons, l’omonimo era un’altra cosa, i primi sono meglio, dall’altra quelli che per darsi un tono partono con voli pindarici da Giacomo Leopardi all’amatriciana, come ogni qualvolta gli si para davanti musica che sconfini anche solo leggermente dai canoni della forma canzone.  Ora, non per attaccare pure io con le frasi fatte (o anche sì), ma per l’ennesima volta la verità sta circa nel mezzo.

Intanto proviamo un attimo a spiegare Kilimanjaro Darkjazz Ensemble a chi è a digiuno: la proposta del collettivo olandese è talmente ricca di riferimenti e richiami da poter essere recensita (purtroppo?) su un numero indefinibile di siti e pubblicazioni. La parte più jazz è di certo nel nome, anche se nei dischi poi incontriamo passaggi di sassofono, pianoforte o ritmici che suonano più o meno imparentati col suddetto genere. Per il resto giocano con atmosfere da colonna sonora noir, suggestioni ambient, post rock, downtempo, finanche neo classiche, un po’ come i tedeschi Bohren & Der Club Of Gore, pur senza raggiungere certe loro vette di “cupismo”. Rispetto ai Bohren, che con l’ultimo ‘Beiled’ assai hanno deluso, i KDJE sono ancora in gioco e più o meno in scia ai due ottimi lavori precedenti; a cambiare, semmai, è il dosaggio degli ingredienti, a partire dalla componente elettronica, usata con maggiore prominenza agli esordi e oggi quasi del tutto assente. Anche la voce dell’ottima Charlotte Cegarra è usata con più parsimonia: l’idea è forse di evolversi rendendo l’insieme più vario, e se da una parte la scelta paga (il crescendo di  ‘Celladoor’ potrebbe essere parto dei Mogwai alle prese con la colonna sonora di un poliziottesco dei più amari), dall’altra regala almeno un paio di mattoni indigeribili (‘Cocaine’ e la conclusiva ‘Past Midnight’), in cui la mano verso territori ambient viene calcata fin troppo e non accade quasi nulla.

Gli episodi migliori (la citata ‘Celladoor’, gli archi di ‘Cotard Delusion’, il sax di ‘White Eyes’, in generale tutti i momenti imparentati con gli album precedenti, per la solita serie “classe & mestiere”) valgono di certo un ascolto e magari anche l’acquisto (specie da parte dei sostenitori più accaniti del genere/non-genere, ché quest’anno le offerte meritevoli non sono state tantissime), ma globalmente ‘From The Stairwell’ dà l’idea del disco di passaggio, partorito da un gruppo che non vuole ripetersi ma non ha ancora trovato (o deciso?) la nuova strada da percorrere. Va ancora bene così, ma a occhio il prossimo passo sarà quello della verità: dentro o fuori. (Nico Toscani)

 

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