FREE FALL JAZZ

Il nome di Jaleel Shaw non sarà nuovo ai lettori più attenti, che hanno potuto ammirare le grandi qualità del sassofonista americano in diverse occasioni e contesti. Nel 2013 è uscito il suo terzo, ottimo album, ‘The Soundtrack Of Things To Come’, fra poco avremo occasione di sentirlo nella nuova formazione di Tom Harrell, quindi quale occasione migliore per scambiarci qualche parola?

Quando hai cominciato a lavorare a ‘The Soundtrack Of Things To Come’?
Ho iniziato i lavori nel 2009. La composizione ‘Leel’s Tune’ in realtà proviene dalle sessioni del mio precedente album, ‘Optimism’, ma al tempo decisi di lasciarla fuori perché suonava estranea al resto.

E’ la prima volta che hai scritto musica su commissione?
Per quel che ricordo direi proprio di sì, è la primissima volta che mi commissionano della musica. La cosa più bella, comunque, è che da lì ho continuato a lavorare su commissione. Nel 2010 ho avuto un altro finanziamento per comporre musica assieme ad un musicista francese dalla Chamber Music Of America e dalla FACE Foundation. Musica che ha avuto la sua prima a Parigi lo scorso anno.

Come funziona, in questi casi? Un ente ti contatta e ti propone di scrivere musica per questa o quell’occasione?
La prima volta ho scritto per il Museo Reuben di New York. Quel museo fa suonare spesso, e dal vivo, musicisti alle prese con opere originali commissionate per l’occasione: l’unica indicazione è di ispirarsi a questo o quel pezzo d’arte esposto nelle loro sale. Quando lo hanno chiesto a me, mi sono venute in mente così tante idee da non essere in grado di scrivere solo un pezzo. Alla fine ne ho scritti almeno quattro. Mentre suonavo al Reuben, nel pubblico c’era qualcuno del Brooklyn Museum che ha apprezzato e così mi ha avvicinato proponendomi di fare lo stesso per loro. Mi sono trovato per le mani abbastanza materiale per un album intero!

C’è differenza fra lo scrivere per qualcuno anziché per te stesso?
Non c’erano particolari aspettative nei miei confronti, solo fiducia, quindi no, alla fine non è stato molto diverso. Non ho cambiato niente di me stesso per queste commissioni, né mi hanno imposto cosa fare: mi hanno semplicemente chiesto di mettere in musica le sensazioni che l’arte mi ispirava, la mia prospettiva su di essa. E quindi, sempre di me si tratta.

Su ‘The Soundtrack…’, oltre ai brani scritti per il Reuben e il Brooklyn, ce ne sono altri del tutto nuovi. E’ stato difficile dargli coesione?
Per me, l’arte scatena emozioni, ricordi, pensieri. Tira fuori cose che sono nella mia mente e a volte mi aiuta a tradurli in note. A volte le persone fanno la stessa cosa. A volte addirittura un colore, o un certo stato d’animo. L’arte mi ispira perché mi porta al di fuori del mio mondo quotidiano e mi permette di raccogliere i miei pensieri, e mi dà un sacco di idee. Tornando al disco, credo sia il mio lavoro più personale. Ha tanta coesione quanto gli altri, se non di più. Nelle note che ho scritto per il cd, lo dico chiaramente: pure la musica che ho scritto per i musei si è connessa strettamente con la mia vita. Ogni brano alla fine si è legato con esperienze avute in seguito.

Sei d’accordo col fatto che ‘The Soundtrack…’ sia più potente e diretto rispetto a ‘Optimism’?
No, credo che pure ‘Optimism’ lo sia! Semmai ‘The Soundtrack…’ presenta diversi organici a seconda del pezzo e per questo può risultare meno immediato.

Sei in giro da molti anni ormai, eppure la discografia a tuo nome è davvero esigua, in paragone al gran numero delle tue collaborazioni. Perché?
So che sembro un vecchio, ma non mi pare di essere in attività da così tanto tempo da dover giustificare un carniere di chissà quanti album da leader. Sto a New York da tredici anni, due dei quali passati a finire i miei master alla Manhattan School Of Music. Ho passato molto tempo con maestri come Roy Haynes. Nel complesso, non mi interessa di fare più album da leader rispetto a quelli da sideman. Quando ho abbastanza idee mi metto a scrivere e registrare. Ogni cosa al momento giusto.

A proposito di Roy Haynes, cosa hai imparato da lui e da altre collaborazioni (Christian McBride, Tom Harrell, la Orrin Evans Big Band, la Mingus Big Band…)?
Ho imparato un sacco di cose sul ritmo, sul tempo e sulla melodia da ciascuno di questi grandissimi artisti. Roy Haynes mi ha parlato di che incredibile senso del tempo e del ritmo avessero John Coltrane e Charlie Parker, ed è qualcosa che ho sempre cercato di tenere in mente. Quando suono con Christian penso innanzitutto alla spontanietà. Per me, Christian è uno dei più grandi improvvisatori del nostro tempo. E’ una persona davvero spontanea e intuitiva, con in più tutta la tecnica necessaria a suonare qualsiasi cosa possa passargli per la mente. Mi ha insegnato a essere sempre lucido e consapevole mentre suono. Potrei dire la stessa cosa per Tom Harrell. Tom è un musicista molto melodico. Il suo fraseggio e la sua scelta di note sono sempre frutto della massima spontaneità; cerca sempre qualcosa di nuovo, ma lo fa con un senso della tradizione e della storia che per me è incredibile. E dalle orchestre, infine, ho imparato a fondermi nel suono di gruppo. Quando suoni con così tanti musicisti, devi trovare il tuo posto nella band. Devi trovare come contribuire per farla suonare meglio. Devi ascoltare tutti e capire cosa puoi aggiungere senza salire sul piedistallo, perché non devi mai perdere di vista il quadro generale.

Molte persone sembrano convinte che il jazz, oggi, debba necessariamente essere fastidioso e noioso come sinonimo di “avanguardia” e quindi “bene”. Come mai nascono sempre queste polemiche?
Ognuno ha le sue posizioni su come la musica debba suonare, ed è ok, sono solo gusti personali. Personalmente non credo che la musica valida oggi debba per forza essere rumorosa o fastidiosa per essere bella, e per fortuna non lo penso solo io. Ognuno di noi, per fortuna, può fare quello che vuole, sarà poi il pubblico a decidere. L’unico inconveniente è quando qualcuno vuole importi il suo credo. Ecco che allora nascono le periodiche “jazz wars”!

Anche tu pubblichi musica con la tua etichetta personale, la Changu. E’ la cosa migliore per un jazzista, oggi?
Lo è se non sei sotto una major. L’industria si è aperta molto di più all’iniziativa del singolo, oggi. E’ molto più facile vendere la tua musica con iTunes, Amazon, CdBaby e dal vivo, oggi. In più, i negozi di dischi chiudono. Così, se un artista può produrre e promuovere i proprio lavori, secondo me ha tutto da guadagnarci. Sto pensando, più avanti, di produrre pure altri.

(Intervista raccolta da Negrodeath)

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