FREE FALL JAZZ

Quella di Baby Face Willette sembra una storia uscita da ‘Natura Morta Con Custodia Di Sax’, meraviglioso tomo in cui lo scrittore Geoff Dyer drammatizza le parabole più o meno autodistruttive di alcune leggende del jazz. Baby Face non è mai diventato grande quanto un Monk o un Bud Powell, anzi, quel successo non lo ha nemmeno sfiorato da lontano, però la sua storia tra quelle pagine non avrebbe sfigurato, per giunta senza alcuna licenza letteraria: vuoi per la sua breve ma intensissima carriera, vuoi per l’alone di mistero di cui è circondato, tanto che i dubbi sulla sua morte, avvenuta nel 1971, perdurano ancora oggi. Altrettanto contrastanti sono le voci di chi ebbe modo di conoscerlo: per qualcuno i suoi concerti avevano del trascendentale, pregni di un’energia mai catturata su disco; altri invece lo apostrofavano come mediocre musicista, forse perché Baby Face picchiava sul suo Hammond B-3 con un vigore più vicino a quello dei gruppi rock che adotteranno di lì a poco il medesimo strumento che non a un Jimmy Smith, che proprio in quel periodo a cavallo tra ’50 e ’60 faceva furore. 

Quel suono così personale aveva un perché: figlio di religiosi, Baby Face (che di nome all’anagrafe era registrato come Roosevelt) si era fatto le ossa suonando l’organo per cori gospel sin da ragazzino. Il suo altro grande amore era poi il rhythm’n’blues: tutti elementi che confluiranno nel suo stile quando, stabilitosi a Chicago, si ritroverà folgorato sulla via del jazz. La prima grande possibilità la riceverà addirittura dalla Blue Note, che gli permette di esordire da leader dopo un paio di eccellenti prove da gregario su album del sassofonista Lou Donaldson (‘Here ‘Tis’) e del chitarrista Grant Green (per ‘Grant’s First Stand’, con il batterista Ben Dixon a completare il trio). L’anno è il 1961, e Willette sforna in rapida sequenza due long playing: ‘Face To Face’ e ‘Stop And Listen’. Quest’ultimo è di solito ritenuto il suo apice, e di esso si finisce inevitabilmente a parlare quelle rare volte in cui il nome dell’organista americano viene riportato alla luce, ma, senza nulla togliere al suo pur notevole valore, sarebbe criminoso tacere dell’esordio, naturale dunque sceglierlo per il nostro ripescaggio. Dixon e Green qui ricambiano il favore offrendo un supporto compatto (il chitarrista poi si ritaglia anche spazio per avvincenti assoli, che gettano le basi per il disco successivo), ma a regalare un tocco unico alla formazione è l’incontenibile sax di Fred Jackson, un altro che, proprio come Baby Face, vantava un background principalmente r’n’b (persino Little Richard tra le sue referenze).

È proprio l’interazione tra tenore e Hammond a caratterizzare sei brani incasellabili nel filone del soul jazz, ma che si abbeverano con successo ai vari ascendenti del composito background dei musicisti coinvolti. La title-track è un classico minore: ammicca esplicitamente all’hard bop, ma a tratti prefigura persino certo jazz funk che verrà qualche anno dopo. E se il retaggio blues che emerge (anche) dalla clamorosa ‘Somethin’ Strange’ (col fantasma di Ray Charles dietro l’angolo) non suona inaspettato, ci si stupisce invece davanti agli esotismi dell’altrettanto riuscita ‘Whatever Lola Wants’, che si tinge di mambo sotto i colpi di un Jackson davvero in grande spolvero, che durante un assolo accenna con divertita disinvoltura il tema di ‘Pop Goes The Weasel’.

Tre dischi vi faranno seguito: il sassofonista sarà assente sul citato ‘Stop And Listen’ che, incentrato completamente sull’asse chitarra-organo, a tratti virerà con ancor più decisione verso il blues. Come per il debutto, saranno in pochissimi ad accorgersene: entrambi gli album verranno “schiacciati” dall’impressionante mole di capolavori sfornata dalla Blue Note nello stesso periodo. A metà anni ’60 ne arriveranno ancora un paio su Argo (sottoetichetta della Chess), ma passeranno ancor più in sordina. Si tratta delle ultime incisioni ufficiali prima che le cronache si facciano nebulose: pare che Baby Face si ritiri a Chicago in seguito a screzi con la casa discografica, dove spunterà un ingaggio fisso, mantenuto fino ai primi anni ’70, per esibirsi in un locale. Poi la fine. Per lunghi anni nemmeno confermata: qualcuno lo dava per vivo chissà come e chissà dove. Oggi abbiamo una data, 1 Aprile 1971, ma le circostanze sono ancora poco chiare: pare sia stato assassinato dietro le sbarre, mentre scontava una condanna per droga. La mano sul fuoco, però, non possiamo affatto mettercela. Quale sia la verità poco importa: magari resta il rimpianto per quanto avrebbe potuto ancora dare, ma quel che ha lasciato in eredità è più che sufficiente a fargli guadagnare la stima di tutti gli appassionati di jazz che amano scavare sotto la superficie. (Nico Toscani)

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