FREE FALL JAZZ

Orrin Evans è una sorta di eminenza grigia di quella generazione perduta del jazz degli anni ’90. Un pianista, leader, arrangiatore, compositore, scopritore di talenti e chi più ne ha più ne metta, impegnatissimo sul fronte della divulgazione e con una ricca carriera discografica alle spalle – in proprio, come sideman e con i progetti Tarbaby (oggetto di futura dissezione) e la qui presente Captain Black Big Band. L’orchestra jazz non gode di ottima salute oggigiorno, soprattutto per i costi molti alti che comporta, ma Evans non è tipo da scoraggiarsi. Radunati musicisti del giro di Phildadelphia e New York (come Ralph Bowen, Tia Fuller, Jaleel Shaw, Wayne Escoffery, Mark Allen, Luques Curtis e molti altri ancora), Evans ne mette insieme una esplosiva, cui si addicono tutti quegli aggettivi come ‘swingante’, ‘hot’, ‘hard’ e compagnia. Ma al di là di queste note di colore, la carne al fuoco è davvero molta. Molte recensioni in giro hanno fatto paragoni con Ellington, Mingus e Marsalis, ma sebbene le influenze di questi tre maestri siano presenti, il paragone più immediato è quello con Oliver Nelson, per il suono asciutto, squillante, con ottoni taglienti in primo piano e quei “blocchi di suono” che si sovrappongono e si scontrano in maniera sempre eccitante.

Immaginate però i Jazz Messengers al timone delle partiture di Nelson per avere un’idea più precisa della Captain Black Big Band – un’orchestrazione moderna e avvincente, l’agilità e l’interplay di un grande quintetto hard bop, il gusto per un ritmo travolgente e ballabile, quello che mutatis mutandis costituiva il motore delle formazioni di Count Basie e Lionel Hampton. ‘Art Of War’ rompe gli indugi con un sound potentissimo, forte di una trentina di musicisti che, dopo l’accattivante tema blues, lasciano spazio all’esuberante sax di Rob Landham supportandolo poi con robusti riff. La successiva ‘Here’s The Captain’ è una maestosa parata che unisce delicatezza e virile potenza, illuminata dall’assolo penetrante del tenore di Victor North e dal piano martellante e fluido di Evans: un bellissimo saggio di soul e blues uniti in un’opulenta corale jazzistica. Tutti i brani meriterebbero una citazione, mi limito a segnalare ‘Inheritance’, dalla fluide ritmiche latineggianti che giocano a rimpiattino con l’imponente sezione di fiati, ‘Easy Now’, dalla melodia dolce che fluttua su un mare di accordi cupi in un crescendo emozionante, e la frenetica, lancinante ‘Jena 6′, con l’orchestra che si ritira progressivamente per lasciare il palco al solitario sax urlante di Jaleel Shaw.

Retroevoluzione, conservainnovazione, avanguardia di sintesi… quel che vi pare. Orrin Evans si conferma, ancora una volta, un grande e acuto musicista che meriterebbe ben altra considerazione.
(Negrodeath)

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