FREE FALL JAZZ

Con il concerto di Enrico Pieranunzi e la Brussels Jazz Orchestra si è conclusa domenica scorsa l’edizione 2017 del Bergamo Jazz Festival, caratterizzata da un riscontro di pubblico ormai divenuto abituale, con un volano comunicativo sulla città reso intelligentemente più esteso e coinvolgente rispetto alle precedenti edizioni, ma che ha anche evidenziato, in estrema sintesi, esiti artistici e musicali vistosamente diseguali, specie nei concerti svoltisi nella sede tradizionale del Teatro Donizetti. Bergamo in questo senso rimane una delle pochissime isole felici nazionali per il jazz e le musiche improvvisate, in un periodo nel quale stiamo assistendo a una preoccupante, tristissima, ecatombe di manifestazioni nazionali e proposte dedicate al genere, in linea con la situazione di declino complessivo di un paese disorientato e privo di una visione, che pare ormai rivolgersi culturalmente solo al proprio passato e vivere di roboante e acritica retorica nazionalistica, utile solo a condizionare le menti più deboli. Perciò stiamo parlando di un bene comune prezioso, non riguardante solo la cittadinanza bergamasca o una ristretta élite di cultori, da preservare e proteggere quasi come se si trattasse di una specie animale in via di estinzione.

Premetto, per correttezza, che non ho potuto assistere a diversi concerti di un programma molto ricco di eventi e distribuito in diversi luoghi della città, tra cui i due interessanti concerti in solo di Evan Parker e di Ernst Reijseger e quello domenicale al Teatro Sociale di Andy Sheppard (oltre a quelli nei quali si sono visti coinvolgere giovani emergenti nell’ambito del progetto “Scintille”, l’intelligente innovazione curata dal sassofonista Tino Tracanna). E’ dunque evidente che il giudizio personale non potrà che essere parziale.

Iniziando a parlare dagli “alti”della manifestazione, ho molto apprezzato, in esclusivo ordine cronologico degli eventi, i concerti del Trio OriOn di Rudy Roiston, il duo di Bill Frisell, il quartetto di William Parker e il concerto finale in big band sulle composizioni di Enrico Pieranunzi, per diverse ragioni che proverò qui a esporre.

L’esibizione del trio di Royston ha mostrato un gruppo solido, equilibrato nei valori individuali ed affiatato, con un ormai maturo e nell’occasione in spolvero Jon Irabagon. Il sassofonista, noto per le recenti esperienze con la band di Dave Douglas e di Mostly Other People Do The Killing, è stato protagonista di una prestazione di alto livello. L’ambito formale del trio senza pianoforte per un sassofonista è una delle prove più ardue da affrontare e alla portata solo di improvvisatori in possesso di un importante bagaglio di esperienze maturate nel campo dell’improvvisazione, che richiede uno sforzo creativo pressoché costante. In sostanza, è una sorta di punto d’arrivo nella carriera di un sassofonista, costringendolo ad esserne comunque, se non il leader, la voce solista più esposta e fondamentale. Il sassofonista americano (ma di sangue filippino) si è esibito sia al tenore, sia al soprano, con tecnica sopraffina e un fraseggio fitto e sofisticato, associati anche ad una buonissima espressività, evidenziata in particolare in una magistrale improvvisazione su un moderno blues. Ovviamente è parso inevitabile, specie nel brano modale di apertura il riferimento a Coltrane, tuttavia miscelato a diverse altre influenze pre e post coltraniane, in modo ormai quasi indistinguibile. Credo possa attualmente essere considerato insieme a JD Allen, Joshua Redman, Branford Marsalis (che peraltro da un bel po’ non si esibisce in trio) e pochi altri tra le voci sassofonistiche più interessanti in circolazione, perlomeno in riferimento a tale ambito formale. Ottime anche le prestazioni dei compagni, tra le qualità ormai ben note e confermate del leader batterista e quelle sorprendenti di un bassista come Yasushi Nakamura che è parso nel suono e nella cavata riferirsi a tratti alle gigantesche figure di Jimmy Garrison e Charlie Haden. Un’esibizione che a nostro parere avrebbe senz’altro meritato la presenza in una delle tre serate clou nel principale teatro cittadino.

Il concerto in duo di Frisell assecondato perfettamente dal batterista Kenny Wollesen è invece stato di grande fascino poetico, disegnando in musica una sorta di ritratto dell’America non metropolitana vista sotto il filtro culturale di un bianco americano. Perciò nella musica proposta, specie nella lunga suite iniziale, si sono colti richiami continui al country western, al blues, al folk e al rock & roll, oltre che al jazz. Il tutto eseguito e ben miscelato da un musicista in possesso di un’inconfondibile e ben consolidata cifra stilistica, relativa ad un chitarrismo molto personale, basato sulla ricerca timbrica e su una grande raffinatezza armonica, in grado di’ esaltare le affascinanti linee melodiche dei brani proposti. E’ successo nell’interpretazione di noti standard del jazz quali Lush Life Misterioso, ma anche nella proposizione di canzoni di Bob Dylan e di Burt Bacharach (What The World Needs Now Is Love).Bis finale sulle note di un classico rhythm changes come Oleo.

Con il quartetto del contrabbassista William Parker tutto composto da musicisti afro-americani, peraltro di diverse generazioni si è toccata probabilmente la punta ritmicamente e energicamente più alta di tutta la manifestazione. Un concerto di grande impatto sonoro sul pubblico, ma anche di grande impegno uditivo, che ha presentato una sorta di “free controllato”, grazie soprattutto al magistero del batterismo di Hamid Drake che ha praticamente condotto la direzione della musica e incalzato i solisti con una cangiante poliritmia e continui cambi di metro. Si sono potuti infatti cogliere tempi quasi di tutti i tipi, frammentati in sette, in cinque, in otto e in quattro. Su un tale lago ritmico eseguito con potenza associata ad assoluta pulizia e controllo esecutivo si è potuto esaltare il solismo dell’acclamata nuova stella del sassofono improvvisato: un James Brandon Lewis in possesso di una sonorità abrasiva che ha ricordato il primo David Murray (via Albert Ayler) e a tratti quella di George Adams e Sonny Rollins, oltre a manifestare un vibrato prossimo a quello espresso dal Coltrane dell’ultimo periodo. Nel presentare l’ultimo magnifico pezzo, Parker, contrabbassista di impostazione mingusiana, ha voluto ricordare al pubblico che quello era il giorno del compleanno di Cecil Taylor (con il quale ha suonato e dal quale è stato ispirato), ma anche della grande Aretha Franklin e lo sarebbe stato anche di Paul Motian se fosse stato ancora vivo, rimarcando, se ce ne fosse stato ancora bisogno, l’unità, spesso  negata e fraintesa, della grande musica nera. Non a caso si è potuto apprezzare una sorta di gospel moderno, nel quale il giovane sassofonista ha potuto liberare tutta la carica emotiva e spirituale propria di quella forma musicale che evidentemente è patrimonio culturale e di appartenenza linguistica di ciascun musicista afro-americano.

Il progetto di Pieranunzi con l’orchestra belga si è rivelato davvero una bella conclusione del festival, nel quale abbiamo potuto ascoltare del jazz classico per big band davvero ben fatto e suonato da musicisti molto seri e preparati. Davvero apprezzabile la serietà con la quale è stato preparato il progetto sulle composizioni del pianista romano, arrangiate splendidamente dal trombettista Ben Joris. L’accurato lavoro di scrittura delle parti orchestrali è riuscito in effetti a evidenziare la bontà musicale del pianista nella sua veste di eccellente compositore. Anche sul piano solistico, oltre al noto valore di Pieranunzi, oggettivamente uno dei nostri migliori jazzisti, si sono potuti apprezzare ottimi interventi di alcuni orchestrali, effettuati con una proprietà linguistica poi non così comune oggi a livello europeo. L’orchestra ha ricordato molto nel suono complessivo, nell’impasto timbrico e nell’articolazione delle diverse sezioni quelli della Thad Jones/Mel Lewis Orchestra anni ’60. Un concerto equilibrato e di livello musicale costantemente alto in cui ha spiccato la notevole ballata With My Heart In A Song.

Il Tinissima Quartet del sassofonista friulano Francesco Bearzatti ha proposto al Teatro Sociale sito in Città Alta il proprio progetto This Machine Kills Fascists ispirato alla figura ribelle di Woody Guthrie e alla canzone popolare americana anni ’30 e ’40. Pur apprezzando il livello dei musicisti, specie quello dei due fiati (con Giovanni Falzone in bella evidenza), e la musica prodotta, il progetto mi è parso presentare, a differenza di quanto invece fatto da Bill Frisell il giorno successivo, un’immagine dell’America in musica più superficiale e da cartolina illustrata, filtrata cioè da un modo di vederla tipicamente europeo.

Venendo quindi ai (relativi) “bassi” del festival, in generale devo evidenziare, con dispiacere, che la tematica “donne nel jazz” che sul piano della comunicazione pareva azzeccata e di attualità, nelle scelte ha funzionato maluccio. Abbastanza scentrato e approssimativo mi è parso il progetto su Ella Fitzgerald di Regina Carter, violinista di buona preparazione accademica ma di relativa significanza jazzistica e in generale piuttosto sovrastimata. La Carter ha puntato su alcuni brani giovanili della grande cantante, peraltro poco significativi, e su brani ispirati al blues e agli spirituals (come l’ellingtoniano Come Sunday, in una versione tra l’altro inutilmente arzigogolata in improvvisazione di un tema immortale e già perfetto di suo), quando Ella è forse stata la più grande e enciclopedica interprete del song americano. Certo non basta in questo senso aver inserito in repertorio il solo Dedicated To You.

Shamania, un collettivo di dieci elementi al femminile (più danzatrice) diretto dalla percussionista Marilyn Mazur è parso un progetto visivamente coinvolgente e spettacolare quanto musicalmente debole, mentre il trio condotto dalla giovane tenorsassofonista cilena Melissa Aldana ha mostrato i limiti evidenti di una sassofonista ancora in fase di maturazione, sia sul piano improvvisativo, sia in quello compositivo, per potersi districare ad alti livelli nell’impegnativa formula del trio, un ambito che vanta già grandi interpreti e grandi capolavori nella storia del jazz. Il confronto con la prestazione di Jon Irabagon nella serata del giovedì, è, ad esempio, parso a tratti quasi impietoso.

Infine, segnalo che la musica, quasi esclusivamente scritta, presentata per l’occasione dal quartetto norvegese del pianista Christian Wallumrød, pur nella sua intrinseca validità e interesse (per chi è interessato al genere) e tenendo conto dell’indiscutibile preparazione e onestà artistica dei musicisti coinvolti, è da considerarsi totalmente fuori dall’alveo del jazz. Per quanto infatti esso sia sempre stato in grado di fagocitare qualsiasi contributo linguistico e le più svariate fonti musicali, secondo un’idea di “contaminazione” oggi peraltro abbastanza mistificata, nel caso della musica proposta dal gruppo norvegese l’unico linguaggio davvero assente è stato proprio quello del jazz. Pertanto, non si potrebbe nemmeno parlare di “contaminazione” musicale, semmai di vera e propria esclusione del jazz, il che per una manifestazione che porta ancora nella sua dicitura una parola oggi sempre più depauperata dal suo profondo significato dovrebbe come minimo far riflettere. Altrimenti, perché lamentarsi della presenza nei cartelloni nazionali degli ultimi anni di Lady Gaga, piuttosto che di Massimo Ranieri o Ludovico Einaudi? Sarebbe come minimo contraddittorio e, a parità, occorrerebbe domandarsi (provocatoriamente, ma sino ad un certo punto) perché non ammettere al festival un concerto di rap puro,cosa che, tra l’altro, avrebbe maggior attinenza al tema del festival di proposte del genere.
(Riccardo Facchi – foto di Gianfranco Rota)

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