La location del Tempio Di Nettuno, in mezzo ai resti d’epoca romana, è suggestiva e sarebbe stata una cornice magnifica per il concerto di Cyrus Chestnut e i suoi. Dico sarebbe, perchè un acquazzone mattutino ha spinto gli organizzatori a optare per la prudenza e spostare in fretta e furia l’esibizione in un piccolo gazebo presente nel parco stesso. Ma va bene anche così: ci siamo goduti dell’ottimo jazz a distanza estremamente ravvicinata.
Di Chestnut abbiamo già parlato in precedenza su queste pagine: si tratta di uno dei pianisti più solidi del panorama mainstream americano, con una proprietà di linguaggio che attraversa decenni di jazz fino a toccare radici intrise di blues e di gospel. Il trio è completato da una sezione ritmica dal pedigree impressionante: Buster Williams al basso, Lenny White alla batteria. La stessa formazione, dunque, autrice del recente ‘Natural Essence’. Proprio quest’ultimo costituisce il fulcro della scaletta, anche se stasera i nostri sembrano avere una marcia in più rispetto al (pur buon) disco. In particolare, a giovarsene è la ‘Mamacita’ che fu di Joe Henderson, ora davvero travolgente, ma anche i momenti più calmi,  come la “notturna” ‘Faith Amongst The Unknown’, risultano altrettanto incisivi.
Lenny White, superfluo dirlo, è una macchina precisissima e con la giusta dose di fantasia, ma il vero protagonista, a suo modo, è Buster Williams: giacca pastello che pare uscita da Miami Vice, portamento composto e flemmatico, col basso tra le mani si trasforma. È lui a reggere e trascinare i compagni, incluso un Chestnut a tratti incontenibile (e quest’ultima non è una novità ). Due cose, in particolare, colpiscono del pianista. La prima è la versatilità , visto che si esibisce anche in un paio di overture figlie dei suoi anni di studi classici, andando a toccare il ‘Minuetto in Sol Maggiore’ di Bach. Per la seconda invece ci rifacciamo a una sua dichiarazione contenuta nelle note di copertina dell’ultimo disco: “Mi piace pensare al piano come se fosse una grande orchestra. È una cosa che ho imparato anni fa alla corte della grande Betty Carter. Lei mi diceava: ‘In questo punto vorrei essere coperta dai violoncelli’, ed io dovevo in qualche modo riuscire ad avvicinarmi a quel tipo di suono. Altre volte invece vorrei suonare come una serie di trombe squillanti o come ancora altri strumenti. Sono illusioni. E per me la vera sfida è prendere queste illusioni e farle suonare reali”. Ed è assolutamente vero, visto che in più di un’occasione le note del suo piano sembrano quasi emulare dei sax, arricchendo il suono al punto da farlo sembrare quasi quello di un quartetto o di un quintetto. Un approccio, questo, assolutamente personale e riconoscibile.
A tratti i tre sembrano quasi spiazzati dal tipo di pubblico dinanzi al quale si stanno esibendo. Rubando la calzante definizione al collega Negrodeath, potremmo definirlo pubblico “da aperijazz”, in cui gli appassionati sono una minoranza rispetto a quanti sembrano capitati lì per caso, giusto per sorseggiare vino e assistere all’evento jazz che fa trés chic (e qualcuno sembra appisolarsi anche, a dire il vero. Scene che se siete degli habitué non vi risulteranno del tutto nuove). Come se non bastasse, il vizio di iniziare ad applaudire appena arriva la parte più calma di un pezzo tocca nuove vette di fastidio: almeno un paio di volte i tre sono costretti ad interrompere la musica per qualche secondo. Proprio la musica, però, si rivela più forte di tutto: incuranti del contorno, Chestnut, Williams e White ci danno dentro con classe, mestiere ed entusiasmo, dimostrando che per loro non c’è differenza tra una platea disorganica e un fumoso club della east coast. Cos’altro chiedergli? (Nico Toscani)