FREE FALL JAZZ

Oggi affrontiamo un tema tabù, relativo ad un musicista-totem per molti improvvisatori delle avanguardie europee, da loro molto stimato, ma che a mio modo di vedere (e non solo, come vedremo più sotto)  non è propriamente considerabile un jazzista. Il che può significare poco o nulla. Si può essere dei grandi musicisti e compositori senza essere dei jazzisti, l’importante è non far confusione, come invece regolarmente accade e per ragioni non sempre chiarissime. Lo stesso Braxton, ha avuto modo di dire di se stesso in un’intervista a Hank Shteamer: “I am not a jazz musician, and please put that in your article, affermazione che, ad esempio, un suo collega e compagno di diverse avventure come George Lewis condividerebbe senza grossi problemi.

A tal proposito, più che descrivere le mie modeste opinioni, preferisco trascrivere uno scritto dei primi anni ’70 di Ekkehard Jost tratto dal suo “Free Jazz”che ho riletto recentemente, con il quale sono molto d’accordo e che trovo ricco di intuizioni sorprendenti, considerata l’epoca in cui è stato pubblicato e il fatto che si tratta di un libro scritto da un musicista (baritonista) e musicologo europeo (tedesco) di una certa fama. Il capitolo del libro a cui mi riferisco è quello dedicato all’analisi della musica prodotta dai musicisti chicagoani dell’AACM. Dopo aver analizzato Muhal Richard Abrams, Joseph Jarman, Roscoe Mitchell e Lester Bowie dice scrivendo di Braxton:

“...Come si noterà …è stato tralasciato il contributo apportato dal leader più giovane dell’AACM, Anthony Braxton. E’ stata una scelta intenzionale, poiché il sassofonista e compositore Braxton occupa di fatto una posizione estranea- in termini musicali- rispetto al free jazz di Chicago, il che rende opportuno trattare la sua musica separatamente. Come emerge chiaramente dagli album Three Compositions of New Jazz (1968) e Anthony Braxton (1969), registrati entrambi da Braxton insieme al trombettista Leo Smith, al violinista Leroy Jenkinse ad altri, sussiste una differenza sorprendente fra la sua musica e quella degli altri gruppi AACM. Come accennato nelle sue note biografiche, fra i suoi principali ispiratori vanno annoverati Cage e Stockhausen. Probabilmente è questo l’indizio per cogliere i tratti distintivi della sua musica, dal momento che Braxton ha saputo adattare le idee creative della musica d’avanguardia euroamericana come nessun altro musicista dell’AACM. Allo stesso tempo, si è allontanato dagli elementi stilistici di matrice jazzistica a fondamento della musica degli altri gruppi di Chicago (se non sempre almeno in larga misura). Uno dei suoi tratti distintivi più importanti è dato dal ritmo, o, più precisamente, da quelle qualità sfuggenti ad ogni tentativo di definizione che scaturiscono dal movimento e sono percepite a livello psico-fisico come movimento: esse formano uno degli elementi decisivi di ogni stile jazzistico, si tratti dello swing, del be bop o del free jazz. Sono qualità che mancano pressoché ovunque nella musica di Braxton. Al loro posto si riscontra una certa sterilità ritmica, peraltro tipica di una buona parte della musica improvvisata europea. Nei passaggi a tempo lento dei brani di Braxton, gli accenti si frammentano in eventi sonori sconnessi, svuotati di ogni tensione. I passaggi veloci simulano il ritmo energetico del free jazz, come in Cecil Taylor, ma finiscono per rivelarsi dei meri accelerando, piuttosto che delle intensificazioni ritmiche. Probabilmente, due sono i fattori principali responsabili di questa mancanza di un’energia cinetica tipica del jazz nella musica dei gruppi di Anthony Braxton: il primo è l’atteggiamento nei confronti del ritmo mostrato da Braxton e dal suo violinista Leroy Jenkins; il secondo è la mancanza di interazione ritmica all’interno del gruppo. Per quanto riguarda il primo fattore, è notevole il fatto che sia il fraseggio di Braxton sia quello di Jenkins tenda a mostrarsi relativamente privo di accenti e dunque senza una chiara conformazione ritmica. Lo stile di Braxton ha una certa monotonia, mentre le improvvisazioni di Jenkins richiamano talvolta le cadenze di un concerto romantico per violino, tese alla bellezza del suono e scarsamente articolate sul piano ritmico. Quanto lo stile di questi due musicisti sia lontano dal jazz emerge con evidenza nel confronto con quello del terzo membro stabile del gruppo, il trombettista Leo Smith, le cui improvvisazioni…sono caratterizzate da un forte impulso trascinante. Riguardo al secondo fattore, le interazioni musicali all’interno del gruppo si concentrano essenzialmente nello sviluppo di un’articolazione strutturale; soltanto di rado, tuttavia, queste interazioni producono una base ritmica comune che sia almeno percepibile (non si intende dire un beat). E ciò appare, dopotutto, un elemento indispensabile per la formazione di catene d’impulsi propulsivi e dunque di un nuovo tipo di energia collettiva, come dimostra la musica di Taylor, Shepp, Ayler, oltre a quella di Jarman, Mitchell e Bowie.”

(Riccardo Facchi)

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