FREE FALL JAZZ

Ricordo ancora come fosse ieri il mio primo acquisto di un suo LP, incuriosito dopo aver letto da buon neofita su “Jazz” di Polillo la sua monografia. Fui fortunato, perché trovai subito una edizione originale rara del concerto registrato alla Town Hall in trio con David Izenzon al basso e Charles Moffett alla batteria per la ESP, nel 1962, giusto prima del suo lungo ritiro dalle scene sino al 1965. Si era sul finire degli anni ’70 e Il jazz lo “macinavo” ancora da poco, anche se con gran passione e voracità, men che meno osavo approssimarmi a quello più avanzato, come il suo, ed ero davvero curioso di vedere l’effetto che mi avrebbe fatto ascoltarlo. Appoggio con titubanza sul piatto la facciata A del disco e subito, dal primo brano, Doughnut, vengo inondato da un suono di un sax contralto obliquo, dissonante, ma penetrante e affascinante, esplicato in un melodismo davvero nuovo e ardito per le mie orecchie, apparentemente privo di riferimenti armonici, ma poi non così astruso come mi era stato raccontato. Fui catturato, indubbiamente, nota dopo nota e subito ebbi la sensazione di trovarmi di fronte ad un genio, quello davvero raro nel jazz, di chi, pur nell’innovare, riesce ad essere comunque comunicativo ed espressivo, come Armstrong, come Parker, come Davis e pochissimi altri nella ormai secolare storia di questa straordinaria musica.

Sì, perché ci ha lasciato davvero un genio della musica, fors’anche oltre il jazz, ma anche un uomo buono, dall’animo gentile, che mai in carriera si è espresso contro qualsivoglia collega, certo non per ragioni di opportunità, ma proprio per carattere. E’ stato il jazzista al quale simbolicamente si è associato l’inizio di quella svolta epocale (peraltro molto meno rivoluzionaria e traumatica di quanto da molti frainteso) chiamata “Free Jazz”, anche solo per la sua omonima incisione Atlantic del 1961. In realtà il modo di intendere la libertà in musica di Coleman è stato qualcosa di molto profondo ma meno iconoclastico verso la tradizione e abbastanza diverso da quanto poi tradotto in quella “libera improvvisazione” travisata spesso in sterile, inconcludente e prolissa cacofonia di suoni, scambiata per analoga arte creativa. La sua era davvero arte nuova e libera, soprattutto dagli abusati schemi, dalle rigide regole armoniche della concezione tonale, dalle obbligate relazioni tra struttura armonica del tema e successive improvvisazioni – spesso totalmente slegate dalla melodia inizialmente enunciata (ad esempio in Free) – ma non così affrancata dalla tradizione afro-americana e del jazz come a volte si è voluto superficialmente descrivere. Innanzitutto Coleman era di Fort Worth, nel Texas, terra di grandi tradizioni musicali, di Folk music, di Ryhthm & Blues, di bluesman e di grandi sassofonisti totalmente intrisi di blues come poche altre negli Stati Uniti e diverse sue composizioni sono sostanzialmente dei blues: Alpha, Tears Inside, Turnaround, Ramblin’, Blues Connotation, Broadway Blues. La sua idea di gruppo e di libera improvvisazione si rifà idealmente ai collettivi New Orleans e le strutture compositve, almeno inizialmente, prendono evidente spunto dagli scheletri armonici del be bop e da Charlie Parker: i brani, spesso velocissimi, sono quasi sempre suonati all’unisono da sax e tromba, le composizioni per quanto melodicamente oblique sono costruite sui rhythm changes, sulle strutture delle canzoni a 32 bars, non disdegnando pure di interpretare a proprio modo qualche standard reso celebre nel jazz da Bird (Embraceable You). Il suo sassofonismo, certamente derivato da Parker (Ornette aveva avuto modo di ascoltare ripetutamente Buster Smith a Dallas, che notoriamente era stato uno dei riferimenti sassofonistici citati dallo stesso Bird, e una delle sue prime influenze è stata quella di Red Connor che aveva suonato proprio con Parker) sapeva poi esprimere a suo modo poesia e grande lirismo. Non si potrebbero descrivere diversamente brani come Lonely Woman, Peace, Beauty Is A Rare Thing, Just for You, o Sadness. Quindi, nella sua concezione musicale all’apparenza così rivoluzionaria c’erano in realtà tutti gli elementi del jazz antecedente e del tempo, solo rielaborati in un modo davvero nuovo e soprattutto “free”, nel senso pieno del termine. Si può ben dire che Coleman abbia superato la tradizione jazzistica sviluppata sino a quel momento andando oltre, ma dopo averla attraversata, non by-passandola o semplicemente negandola, il che è cosa ben diversa. Non a caso nella sua musica sono rintracciabili anche degli elementi “latin” (si pensi a composizioni come Una Muy Bonita o a Latin Genetics) raramente riscontrabili, se non del tutto assenti, in altri maestri del cosiddetto Free Jazz e delle successive avanguardie, che si sono sempre più approssimate alla musica accademica contemporanea e distanziate da certe fondamentali influenze peculiari della tradizione jazzistica



Gli inizi di carriera per Coleman in realtà sono stati molto difficili, soprattutto perché si mosse nell’area di Los Angeles e della West Coast che aveva una estetica musicale ben precisa e molto legata alla tonalità, onde per cui Coleman non poteva risultare che “stonato” fuori dall’armonia, tra lo sgomento del pubblico e l’emarginazione musicale operata da diversi colleghi. Non così la pensava a quanto pare Lester Koenig, scopritore di talenti, acuto produttore e creatore della mitica etichetta californiana “Contemporary” che ingaggiò Coleman nel 1958 insieme all’amico Don Cherry per incidere un paio di dischi che, pur con qualche discrepanza nella scelta della ritmica nel disco di esordio (la presenza del piano del pur validissimo Walter Norris in Somethin Else!!!! parve davvero inadeguata), mettevano già in risalto le sue grandi doti di compositore. Solo l’incontro con John Lewis (probabilmente avvenuto durante una tournée del Modern Jazz Quartet sulla West Coast  e forse favorito da Percy Heath che suona in Tomorrow is the Question) gli apre finalmente la strada verso la East Coast, New York e un importante contratto discografico con la Atlantic dei fratelli Ertegun, etichetta per la quale incideva lo stesso Lewis con il Modern Jazz Quartet.

Il giovane Ornette Coleman insieme al compagno d’avventura Don Cherry nel 1959, viene inserito con una borsa di studio a Boston, nei corsi estivi presso la School of Jazz at Music Inn in Lenox, fondata da John Lewis e con la presenza di  grandi insegnanti tra cui Gunther Schuller, Max Roach, Kenny Dorham e  Jimmy Giuffre, tra gli altri . Quegli studi lo avvicinano alla teoria musicale, al mondo della musica contemporanea e alle concezioni della Third Stream Music propugnata dagli stessi Schuller e Lewis, sviluppando le sue capacità compositive in tali ambiti e coinvolgendolo in progetti come Jazz Abstraction e più in là in composizioni scritte per gli archi,  come Forms & Sounds e Skies of America.

Dalla ripresa dell’attività nel 1965 in poi, Coleman sforna una serie di dischi notevoli per Blue Note, Impulse! e Columbia nei quali è possibile ascoltarlo anche in un approccio poco ortodosso al violino e alla tromba, ma anche al contralto in brani e dischi memorabili, come New York is Now, Ornette at 12, Crisis, e lo stupefacente e visionario Science Fiction, un capolavoro in cui riesce ad utilizzare in modo assai innovativo la voce di Asha Puthli, influenze rock e la sua ormai consolidata concezione di  libera improvvisazione collettiva.

Dalla metà Anni ’70 inizia un nuovo progetto che tenta di unire i distanti mondi del free e del rock con Prime Time, dai risultati musicali diseguali e controversi, ma comunque arditi. Dietro alla sua idea di musica si genera una vera e propria filosofia musicale che viene teorizzata nel concetto di “armolodia”. La sua carriera prosegue sino ai giorni nostri in diverse esperienze discografiche e concertistiche, tra duetti anche con jazzisti europei, esperienze sinfoniche, rimpatriate con i compagni in quartetto degli inizi e il Prime Time , sempre con parsimonia, urgenza espressiva e totale onestà artistica, sino alle opere più recenti, costituendo un continuo riferimento musicale per le nuove generazioni di jazzisti ed improvvisatori.

La sua influenza sulla musica improvvisata di oggi è vastissima, forse anche più forte di quella esercitata da Coltrane, più lenta e meno esplosiva di quella, ma più pervasiva e diffusa anche verso musicisti apparentemente distanti. Molti sono i  jazzisti del passato e del presente protagonisti ai massimi livelli a pagargli debito e a riceverne l’eredità musicale : Jimmy Giuffre, Paul Bley,  Charlie Haden, Dewey Redman, John Carter, Keith Jarrett, John Zorn, Geri Allen, Gonzalo Rubalcaba, Pat Metheny tra i tanti che sicuramente dimentico. Tutti a loro modo ne hanno riconosciuto il valore e la grandezza e a noi fruitori rimarrà la sua musica, la sua arte a ricordarci per sempre  quanto è stato grande questo musicista, quest’uomo.
(Riccardo Facchi)

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