FREE FALL JAZZ

Con ‘Divine Travels’, James Brandon Lewis è passato da un relativo anonimato (se non sulla scena newyorkese) ad essere una delle giovani promesse del sassofono – il tutto con merito. Oggi James è pronto a tornare sul mercato con il suo terzo disco, ‘Days Of FreeMan’, in uscita a breve su OKeh. Di questo e altro si parla nell’intervista che segue, in attesa di mettere le nostre manacce unte sul nuovo album!

James, raccontaci un po’ di te.
Sono un sassofonista e compositore originario di Buffalo, che però fa da molti anni base a New York. Ho studiato alla Howard University e al California Institute Of The Arts. Ho cominciato a imparare la musica solo dopo la fine degli studi: la musica come un modo di vivere, connessa con la spiritualità, con una funzione al di là del semplice aspetto tecnico. Ho iniziato a guardare dentro di me, che significato la musica avesse per me e come potesse influenzare le cose che mi accadevano, una vibrazione alla volta. La musica che cerco di creare è il risultato della mia esperienza di vita, del mio viaggio.

Il tuo terzo cd è prossimo all’uscita. Sappiamo dalla tua pagina Facebook e PledgeMusic che si tratterà di un tributo alla scena hip-hop degli anni ’90. Cosa possiamo aspettarci?
Si tratta della continuazione di una storia cominciata nel 1983, l’anno della mia nascita. Potrete aspettarvi un collage di suoni differenti, disposti in moda da raccontare una storia. Questo disco rende omaggio alla musica hip-hop, in particolare quella che era tutto intorno a me quando ero un ragazzino. L’hip-hop e molte altre musiche, tipo il blues, la work song, lo spiritual, nascono dalle difficoltà e rappresentano un continuum. Ogni successiva “nascita” si fa carico delle esperienze passate e le rilancia in avanti, in forma nuova. Il mio nuovo album aggiunge il mio punto di vista a questo processo.

Qui in Europa molta gente pensa che il jazz sia “musica d’arte” e quindi dovrebbe disprezzare l’hip-hop, fingendo di ignorare il profondo legame che da sempre lega jazz e forme più popolari di musica nera. Cosa diresti a costoro?
Ci sono molti elementi che uniscono tutte queste musiche. E’ un continuum, come dicevo poco fa. Inoltre ritmo, melodia e armonia caratterizzano ogni tipo di musica, quindi puoi trovare sempre qualcosa da imparare.

Si legge a volte che il jazz sarebbe poco rilevante, oggi. Sei d’accordo? E cosa sarebbe “rilevante”?
Ho il più alto rispetto per tutti quei musicisti che hanno creato e portato avanti questa musica, quindi sarà sempre rilevante. Per me, poi, l’aspetto fondamentale è che la mia musica sia il più possibile onesta, coerente con chi sono, col mio percorso e le mie esperienze. Da qui, ogni cosa poi diventa rilevante quando viene pubblicata e resa disponibile all’universo intero.

Se il tuo primo album era stilisticamente vario, ‘Divine Travels’ era centrato sul gospel e la roots music, mentre il terzo sull’hip-hop, come abbiamo detto prima. Ti piace sviscerare uno ad uno gli aspetti del disco d’esordio, ora?
Ogni mio album è diverso, ne sono orgoglioso allo stesso modo! Ognuno di essi rappresenta il meglio che potessi fare in quel periodo, un’istantanea preziosa di una vita vissuta e sempre in divenire. In realtà quindi non posso dirti ora come suoneranno i prossimi, o anche solo il prossimo. Dipenderà molto dalle esperienze che farò da oggi fino al momento di scrivere e registrare nuova musica. La traccia che hai evidenziato, insomma, è casuale.

Con ‘Divine Travels’ sei diventato uno dei giovani musicisti da tenere d’occhio. Hai avvertito un po’ di pressione per questo? E com’è stato lavorare con William Parker e Gerald Cleaver?
Per la pressione, vorrei citare Ralph Waldo Emerson: il più grande traguardo nella vita è riuscire ad essere sè stessi in un mondo che vorrebbe tutto tranne che quello. Io ce l’ho fatta indipendentemente dalle influenze esterne. Posso guardarmi nello specchio ogni giorno e apprezzare quello che vedo. Quindi no, nessuna pressione. La mia integrità è a posto. Quanto a William e Gerald, parlerei di una vera e propria benedizione. Sono due splendide persone, non solo grandi musicisti. Erano sempre pronti a rispondere ad ogni mia domanda sulla musica e oltre.

Dall’autoproduzione alla rinata OKeh, quali sono le differenze?
Sono contento di aver fatto entrambe le esperienze. La differenza principale è nell’ambito distributivo e promozionale: c’è uno staff che lavora per te! Inoltre è un onore vedere la mia musica uscire per un nome così storico!

Chi sono i leader nel jazz di oggi, secondo te? Non gli Shorter o i Rollins, ma fra i giovani.
Ognuno di noi può a suo modo essere un leader. Ognuno di noi, infatti, esprime la propria vita con la musica, e ogni vita è differente e meritevole di essere ascoltata.

Molti musicisti utilizzano la musica anche per veicolare idee e opinioni sull’attualità – vedi Christian Scott, per esempio. Pensi sia un aspetto importante?
L’hip-hop e il jazz hanno sempre parlato di ciò che succede nella comunità. Cos’è la musica che non si connette in nessun modo con quello che accade? E’ solo suono privo di significato. Per esempio, di cosa parla ‘Alabama’ di John Coltrane? Non certo dello stato in sé, ma di cosa stava succedendo laggiù: esprimeva la profonda tristezza per quattro ragazzine che perserso la vita per mano del razzismo. La musica, a meno che non venga tenuta di proposito in una camera stagna, parlerà sempre in qualche modo del quotidiano, altrimenti è estetica fine a sé stessa.
(Intervista raccolta da Negrodeath)

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