FREE FALL JAZZ

Doc Brown's Articles

Un certo tipo di revival “copione” è più in voga nel rock che nel jazz. Per le etichette è un modo di “mungere la vacca” piuttosto collaudato: ciclicamente, per un motivo o per l’altro, torna in auge qualche sottogenere nato e sviluppatosi anni prima e all’improvviso iniziano a spuntare come funghi gruppetti di imberbi ragazzini che offrono un surrogato preconfezionato (che riproduce non solo la musica ma anche il look) di chi quelle cose le ha suonate prima ancora che loro nascessero. Nel jazz invece la storia è diversa: le sonorità “datate” in un modo o nell’altro restano la linfa della musica nuova e in proporzione i casi di “copia in malafede” sono certamente minori. Senza addentrarci ulteriormente, il punto di questo pistolotto è arrivare a parlare di Michael Arenella, un jazzista che ha scelto un tipo “riciclaggio” ben più radicale. Semplificando brutalmente: è come se Jason Moran decidesse di farsi anestetizzare dal dentista col gas esilarante solo perché ai tempi di Thelonious Monk si usava così. Per dirne una, Arenella afferma di trascrivere le partiture usando pennino e boccetta d’inchiostro. Espediente per farsi notare? Può essere. Però si tratta di una storia così surreale da meritare un attimo di attenzione. Sfruttiamo un articolo apparso oggi sul New York Times (sorta di marchettone non troppo occulto per una serie di punti vendita) per aiutarvi a inquadrare il personaggio in questione. La versione originale è disponibile qui.

Michael Arenella è a un mercatino delle pulci di Lambertville, New Jersey; la sua testa, coperta da una fedora, punta un grammofono. Lo mette in moto, solleva il braccio meccanico e posa la puntina su un 78 giri. Dalla vecchia scatola di legno si diffonde una voce che sa di passato: Arthur Fields che canta ‘In My Tippy Canoe’ nel 1921. Il signor Arenella resta silenzioso, mani in tasca, assorbendo ognuna delle gracchianti note. (Continua a leggere)