FREE FALL JAZZ

In breve: un Giovane Sassofonista scatena un flame pazzesco, lo scorso febbraio, sparando a zero su Wayne Shorter dal suo account Facebook. Qui trovate le sue argomentazioni con una convincente demolizione delle stesse, così non la facciamo noi, e qui lo stesso ma in video. Non sono sicuro, a questo punto, su cosa aggiungere. O sul perché scrivere qualcosa sulla vicenda, visto che il Sassofonista è stato abbondamente ricoperto di pece e piume per tutta la rete. Immagino solo che abbia avuto una notevole impennata di notorietà, che tanta gente sia andata a cercarsi suoi video su YouTube per sentire che suona con un bel “ma vaffanculo!” pronto in carica (io stesso l’ho fatto). Il nome del Sassofonista, dunque, è diventato oggetto di dileggio ovunque. Ma dubito che l’abbia fatto di proposito, sono sicuro della sua buona fede e del fatto che ora sia visibilmente a disagio con tutta questa attenzione su di sè. Quello che, comunque, lascia senza parole è il fatto che un jazzista sostenga idee del genere. Roba talmente reazionaria che Stanley Crouch arrossirebbe, per citare un commentatore americano. Roba che ti saresti aspettato da un direttore d’orchestra ottantenne nel 1918, al limite. Roba… tipo cosa? Essenzialmente, una completo fraintendimento.

Perché sembra che il nostro Sassofonista abbia preso la più colossale delle topiche, travisando quando non ignorando la natura orale del jazz. E’ evidentissimo quando, nell’intervista, sostiene che termini come “blues”, “swing”, “groove” etc non abbiano alcun valore, perché in notazione musicale non esistono. Sono termini che in effetti non si possono trascrivere su pentagramma, ma che vogliono dire tanto quando la musica viene eseguita. Perché appunto, il jazz è musica orale e il suo senso lo si può cogliere solo nell’esecuzione. Un compositore in senso accademico traduce in pentagramma la sua creazione, e dal pentagramma viene eseguita fedelmente rispettando la notazione e le indicazioni. Un pezzo jazz, anche se scritto integralmente, no – l’emissione di ogni nota non ha un riferimento fissato ma dipende da tutte le caratteristiche personali dell’esecutore. Ellington e Strayhorn hanno scritto nota per nota ‘The Star-Crossed Lovers’. Lo hanno fatto pensando all’incomparabile stile di Johnny Hodges, fatto di una serie di micro-gesti sonorti non trascrivibili su spartito. Se al suo posto avesse suonato Benny Certer, il risultato finale sarebbe stato molto diverso. E per semplificare non ho parlato delle interazioni all’interno della band nel preciso momento, che aggiungono ulteriori variabili al risultato finale.

Il mondo del jazz lecito, per il Sassofonista, si ferma più o meno a Charlie Parker e Bud Powell (parole sue, anche se sembra risparmiare John Coltrane – forse perché spirituale e trascendente?). Dopo, a quanto sembra, poca trascendenza, troppo arbitrio, troppa volgarità: nello scarso rispetto strutturale, nel non attenersi ad una partitura e al vincolo armonico, nei gesti, parbleau, nell’ammiccamento al pubblico, nell’ondeggiare a tempo, nel dare un ritmo ballabile… questa cosa orrenda, la corporeità, noi pensavamo che fosse una delle grande conquiste del jazz, invece no, la vera arte si fa esclusivamente in un modo. Che è quello che si ottiene mettendo insieme Theodore Adorno con la più squallida estetica borghese-wannabe. Il Sassofonista è riuscito a unire, nei suoi discorsi, questi due estremi inconciliabili, creando una sorta di radicale Frankenstein ideologico da scassarsi in due dal ridere. Più realista del re, o in questo caso, più eurocentrico degli europei. Giovane, perché a questo punto non ti metti a suonare musica barocca? Tanto Wayne Shorter fa schifo!  Che insegnamento trarre da questa assurda e, tutto sommato inutile, vicenda? Forse, più che un insegnamento, un augurio: che la musicologia jazzistica faccia dei grandi passi avanti, perché ne ha veramente bisogno, allontanandosi da sudditanze psicologiche e confronti inutili.
(Negrodeath)

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