FREE FALL JAZZ

Michael Shrieve ha suonato con Neal Schon e Sammy Hagar nel progetto H.S.A.S.. È stato anche il batterista di Santana, ma forse all’epoca (quella in cui mi sono imbattuto in questo disco) non lo sapevo. Ad ogni modo, si tratta di referenze che oggi forse sarebbero più che sufficienti a non farmi comprare un disco; tanti anni fa però (credo fosse il 1997, a occhio e croce) furono abbastanza per convincermi a investire qualche migliaia di lire nell’audiocassetta (rigorosamente cut out, il CD purtroppo non c’era) di ‘Stiletto’.  Dopo un primo ascolto concluso con un emblematico “ma le chitarre elettriche le ha dimenticate a casa?” (non sono cose belle da rivelare, ma almeno apprezzate l’onestà) di polvere ne prese tanta. Le chitarre elettriche, a dirla tutta, c’erano pure (a cura di Andy Summers per giunta), ma da uno che aveva comprato il disco (cioè, la cassetta) grazie a Neal Schon e Sammy Hagar (idolo, non fraintendete) cosa pretendere? Ci volle qualche mese, forse più, per riprendere quel nastro e, pian piano, iniziare ad “entrarci”.

Una volta “dentro”, di ‘Stiletto’ impressiona subito una cosa: i suoi episodi maggiormente “ritmici” (concentrati quasi tutti nel lato A) non cadono nell’errore più comune in quasi tutti gli album in cui i tenutari di bordello sono i batteristi; insomma, le percussioni restano al posto loro, funzionali alla canzone e non viceversa (niente rullate da circo equestre o gong cinesi rubati al batterista dei Pooh [cit.]). Le cose iniziano a farsi serie quando interviene la tromba dai tratti davisiani (e te pareva) di Mark Isham: ascolti l’ottima ‘Moon Over You’ e pensi che forse ‘TuTu’ avrebbe potuto suonare così se Miles l’avesse fatto con una persona seria piuttosto che con Marcus Miller. Non che Isham nei lavori a nome suo (senza contare le colonne sonore) sia poi così bello e rispettabile, sia chiaro: certi polpettoni tra new age e ambient in salsa (più o meno) pop andrebbero proibiti con un decreto legge apposito. Proprio alcune di queste influenze però vengono qui finalmente sviluppate in maniera interessante, si veda ad esempio l’inaspettata rilettura di ‘Las Vegas Tango’ di Gil Evans, rivestita di toni inquietanti che sfociano in un finale dilatato in cui Summers forse fa troppo il verso a David Gilmour, ma è ben sorretto da un Isham che regala al tutto umori quasi morriconiani. È il preludio ai momenti più entusiasmanti del disco: da una ‘Gaugin’s Regret’ corredata da percussioni che sembrano addirittura figlie degli Einsturzende Neubauten meno ostici, fino a un lato B in cui le sonorità si fanno sempre più rarefatte, ambient a tratti, ed è proprio l’atmosfera da colonna sonora intrisa di jazz a prendere il sopravvento. Neal Schon e Sammy Hagar non lo sanno, ma gli devo un favore bello grosso. (Nico Toscani)

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