FREE FALL JAZZ

Ascoltandoli oggi, chi immaginerebbe mai che questi tedeschi nascono dalle ceneri dei rozzissimi Chronical Diarrohea, bassa manovalanza hardcore/thrash di fine anni ‘80? Come si sia arrivati a una metamorfosi tanto stupefacente è il pianista Morten Gass a rivelarlo: “Eravamo solo dei metallari ubriaconi quando abbiamo coniato questo nuovo nome, ma ci piace ancora. Abbiamo deciso di usare la parola ‘Gore’ come tributo all’omonimo gruppo olandese, ci siamo ispirati a loro nel produrre musica unicamente strumentale”. Attivi ormai da più di tre lustri, i Bohren & Der Club Of Gore hanno lasciato il segno con una serie di dischi superlativi, su tutti l’incredibile ‘Black Earth’ (2002), inquietante puzzle dalle atmosfere noir in cui si incontrano jazz, ambient, musica da camera e richiami alle migliori colonne sonore di Angelo Badalamenti. Exploit confermato tanto dall’ostico successore ‘Geisterfaust’, quanto da ‘Dolores’ (2008), a tratti più melodico e immediato, ma sempre affascinante dimostrazione di come sia possibile suonare estremi senza usare neanche una chitarra elettrica. “Il principale obiettivo quando abbiamo formato la band era comporre ciò che volevamo ascoltare – prosegue Morten – dato che nessuno lo faceva; abbiamo impiegato anni per sviluppare un linguaggio fatto di musica potente, ma che non usasse alcuna distorsione. A volte usiamo definizioni strane come horror jazz o piano doom, ma a dire il vero non ci interessa: l’importante è che la nostra musica abbia un feeling inquietante”. Non proprio inquietante, ma senz’altro storia dei nostri giorni, è invece il nuovissimo ‘Beileid’, atipico tanto nella forma, 3 pezzi per 35 minuti di durata, quanto nella sostanza, che lascia più o meno interdetti. Fondamentalmente i Bohren scarnificano all’osso la proposta, riavvicinandosi in parte al citato ‘Geisterfaust’, ma certo non bissandone l’ispirazione: diminuisce la dose di jazz, inversamente proporzionale aumenta quella di ambient. Proprio da qui parte ‘Zombie Never Dies (Blues)’, che, a parte il titolo da adolescente dissociato, si perde in un ammorbante florilegio di vibrafoni e scampanellii prima che un agognato sax provi a risollevarne le sorti quando è ormai troppo tardi. Stima e stretta di mano quantomeno per l’audacia se le merita invece la folle e dilatata rilettura di ‘Catch My Heart’, direttamente dal canzoniere dei Warlock (sì, proprio QUEI Warlock), a tratti penalizzata dalle vocals dell’ospite Mike Patton, che ormai sembra non azzeccarne una neanche per sbaglio: una versione più succinta e interamente strumentale (magari col sassofono a far le veci dell’ex Faith No More) forse avrebbe reso ancora meglio. Velo pietoso infine sulla title-track: un quarto d’ora di narcolessia guidato da synth che tentano, anche un po’ goffamente, di suonare “glaciali” facendo il verso a certo ambient nordeuropeo (genere la cui fase più creativa si è spenta già da tempo, per inciso). Erano la colonna sonora degli incubi più perversi, i Bohren. Oggi semmai il sonno potrebbero conciliarlo. (Nico Toscani)

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