FREE FALL JAZZ


“Il Texas è uno stato d’animo. Il Texas è un’ossessione.
Ma soprattutto, il Texas è una nazione in ogni senso della parola”.

John Steinbeck aveva ragione: che siano gli ZZ Top, la cucina Tex-Mex, Hap & Leonard, “chi ha sparato a J.R.” o i redneck con la cirrosi epatica scolpita nel destino, il Texas è qualcosa di fortemente caratterizzante. Il discorso vale anche per il jazz, ovvio: lo stato della stella si è distinto infatti per aver dato i Natali (per adozione, talvolta) a uno stuolo di musicisti spesso innamorati tout court della musica nera più “viscerale”, sia essa blues, r’n'b, soul, finanche funk. Sassofonisti in particolare: dal pioniere Buster Smith, ai vari King Curtis, Arnett Cobb e, soprattutto, David ‘Fathead’ Newman.

Nato musicalmente sotto l’egida di Ray Charles, della cui backing band era colonna portante, Newman esordisce già nei tardi anni ’50 con una manciata di buoni dischi tra bop e soul jazz, anche se per la nostra dose di consigli periodici abbiamo deciso di spostarci una decina d’anni più avanti. ‘Captain Buckles’ (Cotillion Records) arriva infatti nel 1970 e sin dalla copertina, che ritrae il texano come una sorta di Capitan Findus coloured, mette in chiaro un paio di punti: la voglia di non prendersi troppo sul serio e quella di esplorare territori “esotici”, cosa che in realtà accade solo in due episodi. Il primo è ‘Joel’s Domain’, in cui il sax viene momentaneamente abbandonato per il flauto, il quale fa capolino anche nelle sfumature bossa nova di ‘Blue Caper’, scritta dal trombettista Blue Mitchell. Pur restando relegato per lunghi tratti al ruolo di spalla, quest’ultimo ne esce tutt’altro che sminuito, aiutato anche dalla configurazione del quintetto, che rinuncia al pianoforte per esaltare il ruolo dei fiati e della sezione ritmica. Chi esce a testa ancor più alta è infatti il bassista Steve Novosel, autentico terremoto che nell’economia del sound si trasforma nello yang complementare al sassofono di Fathead, ascoltare il poderoso jazz funk a rotta di collo della title-track per credere. Sulle stesse coordinate, seppure a ritmi meno sostenuti, si muove la conclusiva ‘Negus’, mentre il resto continua a spaziare: se la rilettura di ‘Something’ dei Beatles (uscita appena l’anno prima!) è fiacchetta, grossi punti vengono guadagnati sia col blues di ‘The Clincher’, coi suoi tipici squeak & squonk la più “texana” del lotto, che con l’intenso lirismo della ballad ‘I Didn’t Know What Time It Was’, unico standard in programma.

Un ripescaggio utilissimo per riscoprire un modo di fare sax “passionale” e mai troppo celebrato. In CD dovrebbero esistere ben due o tre ristampe, dunque le ricerche, per chi volesse, non dovrebbero neanche essere troppo affannose: taking Texas to the people. (Nico Toscani)

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