FREE FALL JAZZ

L’approdo su Constellation e il conseguente “sdoganamento” di Matana Roberts presso un pubblico che normalmente mastica poco jazz tracciano attorno a ‘Coin Coin’ un inevitabile alone di diffidenza. Si tratta però di un matrimonio che stupisce solo i meno attenti, dato che l’etichetta canadese in passato ha già dimostrato di saper guardare oltre gli steccati del post rock (un esempio per tutti: l’oscuro folk di Elizabeth Anka Vajagic) e la stessa Roberts ha più volte collaborato con artisti del suo roster, dai Silver Mt. Zion (o come volete chiamarli) ai Godspeed You! Black Emperor di ‘Yanqui UXO’.

La sassofonista di Chicago (ormai al quinto lavoro da leader) si presenta con un ambizioso concept sulla schiavitù e la condizione afroamericana nell’anteguerra, argomento approfondito con tanto di ricerche nel proprio albero genealogico e scandito negli 8 brani in programma soprattutto attraverso interventi di spoken word piuttosto che da vere e proprie parti vocali. Altrettanto particolare è la musica: a capo di un ensemble di 15 elementi (sassofoni, trombe, violini, bassi, violoncello, chitarra, piano, batteria e persino un duduk), Matana prova a spaziare in lungo e in largo tra rimandi e citazioni, partendo da una sorta di free jazz “contaminato” che vede nella Art Ensemble Of Chicago dei numi tutelari quasi inevitabili, vista la comune provenienza. Se l’iniziale ‘Rise’ può rimandare ai momenti più “muscolari” di Ayler o Shepp, basta poco per rendersi conto che le carte in tavola sono destinate a cambiare in maniera quasi convulsa: da momenti calmi ai limiti dell’ambient a urla improvvise e assordanti, da una ‘Kersalia’ che dopo cinque minuti si trasforma in un pezzo dixieland (l’amore per gli old times non è una novità, basti pensare che ha esordito con una raccolta di riletture firmate Ellington/Strayhorn) fino al blues che chiude ‘Libation For Mr. Brown: Bid ‘Em In’ (dopo una partenza a cappella quasi gospel) e al contrabbasso dai tratti mingusiani della conclusiva ‘How Much Would It Cost’.

Il problema di fondo è proprio la tanta carne al fuoco, che forse avrebbe richiesto una sintesi migliore: così com’è ‘Coin Coin’ risulta ottimo negli episodi di maggior rilievo, ma un tantino “sfilacciato” e dispersivo nella sua globalità, con l’integrità del concept preferita all’efficacia musicale. Per chi l’avesse scoperta con questo disco il consiglio è di recuperare anche il notevole ‘The Chicago Project’: uscito un paio d’anni fa, mostra la Roberts in un contesto meno frammentario ma comunque entusiasmante. Il fatto che ‘Coin Coin’, se non abbiamo capito male, sia annunciato come una DODECALOGIA poi non depone certo a suo favore (eufemismo), ma le qualità ci sono: sperare vengano incanalate in una direzione che le esalti di più non è peccato. (Nico Toscani)

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