FREE FALL JAZZ

u0075597946499Che cosa avrà mai da dire di nuovo un disco che nel 2016 si occupa di interpretare per l’ennesima volta delle ballads e dei blues? Proprio nulla, direi, il che per una critica come la nostra, da sempre appassionata al “o famo strano” jazzistico ad ogni costo, è una pecca pressoché imperdonabile, sufficiente a classificare a priori il musicista che intende proporlo nel bieco conservatorismo musicale (detto per inciso, una delle più grossolane idiozie critiche reiteratamente applicate in questo paese ad una cultura musicale per lo più estranea a certe forzature di stampo ideologico), confinandolo entro i limiti dell’ininfluenza e dell’oblio, oltre a considerare quel genere di repertorio ormai esausto e privo di possibili spunti d’interesse. Chi intendesse invece ascoltare senza pregiudizio alcuno prima di dare qualsiasi genere di giudizio, scoprirà semplicemente un grande pianista e inventivo improvvisatore che, raggiunta la maturità musicale e il completo dominio dell’idioma, si confronta con un repertorio per lo più classico ma accuratamente scelto, producendo musica di alto livello qualitativo, interpretandolo in modo molto fresco e personale.

Non sono mai stato un fan di Brad Mehldau e particolarmente affezionato alla sua discografia per trio, tutt’altro, ma non ho difficoltà ad ammettere che si tratti di uno dei pianisti di rilievo presenti sulla scena contemporanea e uno dei pochi ad aver saputo dare un suo non piccolo contributo all’avanzamento in un ambito assai sfruttato come il trio di pianoforte “bianco”, basato sulla forma blues e la canzone, già ampiamente messo a punto e reso arte musicale al più alto livello da giganti come Bill Evans prima e Keith Jarrett poi. Un’impresa non così da poco, poiché, al di là delle apparenze, può risultare più arduo e rischioso andare a toccare qualcosa di già perfezionato che esplorare un campo musicale e un ambito formale del tutto nuovi e da plasmare. Mehldau pare proprio essere riuscito nel tempo a costruirsi una sua identità riconoscibile e un suo spazio espressivo, producendo una musica in grado di allargare il bacino di possibili fruitori anche tra le più recenti generazioni di appassionati, perciò non esclusivamente dediti al jazz, senza svendersi. Un merito non trascurabile, che permetterebbe di far uscire questo genere musicale intrinsecamente inclusivo, dalle pastoie di un’artificiosa esclusività in cui è stato cacciato da élite di sedicenti cultori sempre più ristrette e invecchiate.

Come si accennava, il pianista della Florida torna qui all’acustico, con una scelta del repertorio poi non così scontata come potrebbe sembrare in prima istanza osservando la riproposizione di brani tradizionali e/o immortali come Since I Fell for YouCheryl o ballate strabattute come These Foolish Things e la porteriana I Concentrate On You. Egli riesce invece a dare una interpretazione estremamente fresca e originale, ma senza stravolgerne il senso originario. Il che dimostra anche la sua profonda conoscenza del songbook americano, tendendo a riaffermare la centralità attribuibile al ruolo del blues e della forma canzone nel caratterizzare la storia della musica americana, elementi ancora fortemente presenti nella musica improvvisata di oggi, con buona pace dei loro detrattori. D’altro canto, Mehldau prosegue nell’aggiornamento del book di canzoni interpretabili con spirito jazzistico, attingendo a fonti ed autori più recenti provenienti dal mondo del rock, del pop e delle colonne sonore, prassi peraltro storicamente consolidata nel mondo del jazz e dell’improvvisazione. Ne sono a documento Little Personuna tenera ballata del compositore pop e di colonne sonore Jon Brion (tratta appunto da una colonna sonora del 2008), che è stato anche produttore di alcuni suoi dischi (Largo e Highway Rider), oltre a due brani con protagonista Paul Mc Cartney come My Valentine e il celeberrimo And I Love Her dei Beatles. Quest’ultimo brano, già presente eseguito in piano solo nella recente edizione in cofanetto 10 Years of Solo Live, è qui proposto in versione estesa con una ispirata lunga improvvisazione. E’ interessante notare anche come Mehldau tenda ad improvvisare evitando di seguire pedissequamente la tradizionale forma a chorus, ma soffermandosi, ove valuti possibile, su variazioni che il tema base gli permette di sviluppare, in una sorta di meditazione libera su di esso. Inutile poi aggiungere come l’intesa  con i fidi Larry Grenadier al contrabbasso e Jeff Ballard alla batteria sia perfettamente consolidata. Concludendo: un disco godibile e alla portata di tutti, il che di questi tempi certo non guasta.
(Riccardo Facchi)

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