FREE FALL JAZZ

Ho sempre trovato il preambolo formale in ambito di critica jazzistica un sostanziale errore metodologico nell’esprimere le relative valutazioni sulla musica che si ascolta, così come l’eccesso di enfasi posta oggi sulla complessità o meno delle strutture nella musica improvvisata un elemento che può gravemente distorcerne il giudizio.

Che una composizione strutturalmente complessa attribuisca ad un brano jazz automatica valenza superiore è un sottinteso che si legge tra le righe di molti scritti odierni in materia, ma è sostanzialmente un falso, nel senso che in sé non costituisce una condizione sufficiente e comunque generalizzabile. La scelta dell’ambito formale nel quale esprimersi è propria del musicista, il quale non può essere giudicato a priori su tali basi nella produzione del proprio lavoro, ma di fatto è quello che avviene frequentemente. Il tutto in funzione di una idea evolutiva e “progressista” (nel senso proprio marxista) del jazz che peraltro non ha riscontri nella cultura dalla quale è nato, ossia basilarmente quella afro-americana. Peraltro, gran parte dei capolavori prodotti nel jazz si è fondata a lungo su forme e strutture semplici e per certi versi il jazz ha proceduto nel tempo semplificando i vincoli formali a favore di una maggiore libertà espressiva, a parte rare, per quanto importanti, eccezioni.

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La struttura formale di un brano è solo uno degli elementi, ma non l’unico a definire il carattere di una composizione in ambito di musica improvvisata e comunque è elemento decisivo più in ambito di musica scritta e non completamente applicabile in una cultura orale come quella di riferimento al jazz. Si dirà, ma grandi compositori, peraltro in supremo e difficoltoso equilibrio tra scrittura e  improvvisazione, come Ellington e Mingus, hanno dimostrato di saper produrre della grande musica uscendo dai ristretti vincoli delle forme elementari, ossia, per intenderci,  del blues e della forma canzone, puntando su strutture più aperte e sofisticate. Vero,  e non a caso sono stati anche dei grandi compositori, nel senso tradizionale del termine, ed è abbastanza naturale che il jazz si sia mosso nel tempo anche verso una sofisticazione formale, ma provate a togliere dalla musica di quei giganti altri importanti ingredienti presenti, come l’aspetto della forza, dell’intensità e dell’urgenza espressiva, che sono caratteristiche della loro tradizione musicale cui si riferiscono. Cosa rimarrebbe? Forse solo uno scheletro formale, appunto. Per meglio dire, forse tali geniali menti sapevano unire mirabilmente alla complessità formale e strutturale anche quegli elementi espressivi che il miglior jazz ha sempre saputo imporre e comunicare e questa non è certo dote poi così comune. E poi, di qual genere di complessità stiamo parlando? Quella armonico-strutturale, parrebbe, ma non esiste solo quella. Leggo pochissimo ad esempio in tema di complessità ritmica, che nel jazz è quasi elemento ineludibile. Forse perché non si è in possesso di una adeguata cultura ritmica? O peggio, si è rimasti ai tempi del Concilio di Trento e si ritiene ancora oggi il ritmo espressione del diavolo legato ad un comportamento poco più che animalesco associabile ad una umanità intellettualmente inferiore, tradendo così un latente e imbarazzante razzismo di fondo? E che dire poi della profonda complessità da affrontare nel plasmare l’architettura di una improvvisazione? Ad esempio, l’assolo di Sonny Rollins su un semplice calypso come St. Thomas è semplice?

Mi domando seriamente se chi argomenta in un certo modo abbia mai provato realmente a improvvisare su una canzoncina o un “semplice” blues. Tra l’altro, richiedere, che so,  ad un bluesman complessità strutturale sarebbe un controsenso. Che significato ha cercare di vincolare un artista a precise modalità di espressione? Sicché un ritrattista, o un paesaggista, vale a priori meno di un astrattista? O viceversa? Tutto ciò mi pare persino privo di logica.

L’impressione è che si cerchi, più o meno inconsapevolmente, di ricondurre culture musicali (e non solo) differenti a criteri validi nella cultura di propria appartenenza, trascurandone altri che potrebbero rivelarsi invece fondamentali. Si tende impropriamente a considerare cose come l’aspetto “emotivo” elementi vaghi e del tutto extra musicali, o comunque inadeguati nelle analisi. E’ vero che in passato una critica jazz tradizionalmente naif  ha insistito troppo su tali aspetti, certo, ma non bisogna nemmeno incorrere nell’errore opposto.

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Esiste moltissima musica basata su strutture complesse nel jazz che è di una noia mortale, o comunque che non supera in alcun modo l’arte del jazz basato su forme più semplici. Sembra quasi che il jazz debba in qualche modo elevarsi per potersi comparare alla musica cosiddetta “colta”. Una idea che già serpeggiava in certe derive della esperienza Third Stream (fase peraltro già storicamente abbondantemente esaurita e per certi versi fallimentare) e che ancora si riscontra oggi tra certi musicisti e una buona fetta della nostra critica, ma della quale non si coglie la necessità.

Il jazz da tempo ha acquisito una sua autonomia e delle peculiarità che gli hanno permesso di consolidarsi nel tempo, grazie al contributo di una molteplicità di grandi protagonisti, sin dai tempi di Jelly Roll MortonJames P. Johnson e Louis Armstrong, basandosi sulle specificità della cultura americana che mette da sempre al centro forme relativamente semplici come quella della canzone, ricavandone grande arte. Tra l’altro oggi il jazz sembra disperdersi in una miriade di percorsi e commistioni favorite dai processi di globalizzazione in corso, faticando assai a fagocitare (come ha sempre fatto) l’enorme materiale musicale a disposizione e rischiando persino di perdere la propria identità, come ben sappiamo. Se la strada da percorrere oggi è realmente quella verso la complessità formale e strutturale è solo perché scelta dettata da esigenze musicali ed espressive individuali e non per assecondare qualche complesso di inferiorità, che forse è più la proiezione del pensiero debole di certa critica che una esigenza davvero generalizzabile.

I percorsi che la musica prende e prenderà sono e saranno i musicisti ad indicarli e a percorrerli, alla critica il compito di osservare e di valutare. Non vi è bisogno di alcuna inversione di ruoli.


 

Per concludere il discorso, ecco qui un esempio di un capolavoro del jazz di Archie Shepp basato su una forma semplicissima come il blues canonico, in cui gli elementi espressivi sono assoluti protagonisti.
(Riccardo Facchi)

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