FREE FALL JAZZ

Hai voglia di ignorare il Festival di Sanremo, di inarcare le sopracciglia ben disegnate o arricciare il delizioso nasino. Non si può negare l’antropologia culturale: così come non si può negare agli indios Nambikwara di essere così come li raffigura “Tristes Tropiques”, non si può negare a Sanremo di essere lo specchio di quell’Italia che è passata dal mondo contadino all’arricchimento post-industriale senza avere avuto il tempo di superare l’insegnamento coatto-clerical-democratico di “Non è mai troppo tardi”. È quell’Italia che non si vuol vedere, come quei parenti che vengono nascosti in occasione di visite borghesemente “speciali”, che non devono turbare con il loro sereno e stolido ma dignitoso analfabetismo l’ordine che regna a Varsavia. Un’Italia che provoca dolori agli stomaci delicati di un’intellighenzia ancora più stolida, finta, borghese, che si trastulla con l’arte il più possibilmente “contemporanea”, con i ricordi dei concerti d’antan: i bei tempi di Nono, di John Cage a Sant’Arcangelo di Romagna, di Radu Malfatti, di Cecil Taylor, di Italo Calvino, di Primo Levi citato a casaccio, di Luciano Bianciardi citato altrettanto male, delle icone affastellate alla rinfusa, da Basaglia a Alda Merini, delle intelligenze trattate come figurine Panini, di quella politica sempre più reazionaria e chiusa nel proprio orticello fatto di miserandi ricordi di glorie mai esistite se non nelle brutte copie di goebbelsiane propagande virate al rosso piuttosto che al nero o viceversa.

Sanremo fa schifo, dicono gli ansimanti collezionisti di dischi ECM, di libercoli di Francesco Piccolo e dei suoi momenti di trascurabilissima letteratura d’accatto, gli stessi che un tempo citavano Milan Kundera o i deliri sconci di Julius Evola come Papa Pio XII il rosario, che sono naufragati nella melma pastosa e mielosa del Köln Concert o di Alan Stivell e dei pletorici, rugosi, archeologici film di Nanni Moretti, gli stessi che sbavavano per Kieslowski senza sapere la differenza fra Lublino e Manziana, che si esaltavano per la Ruhr di Pina Bausch tenendosi accuratamente lontani da ogni realtà che non fosse cauterizzata, depurata, pulita, smerigliata su di un palcoscenico per happy few. Oh yes, i nostalgici di Cathy Berberian (ma che della Berberian coglievano sì e no l’onda della leonina mise-en-plis), i vedovi di Demetrio Stratos e di Cornelius Cardew, i rivoluzionari non da salotto (magari!!!) ma da tinello inimmaginabile persino per Ettore Scola e le sue terrazze, les intellos précaires, i clerici traditori che oscillano, ondivaghi come pisciacani al vento, fra Giorgia Meloni e Laura Boldrini, fra Massimo Cacciari e Antonio Razzi come grottesche parodie delle logore imitazioni di Crozza…. Che orrore, per loro, il Festival di Sanremo, proprio per loro, cresciuti a pane e Nam June Paik, a Buondì Motta e Joseph Beuys, a formaggini Milione e Aldo Clementi, a Aranciata Amara San Pellegrino (amara in un modo pazzèèèsco) e Ronconi (dirne sempre bene, mi raccomando, incluse le estenuanti ed estenuate maratone di ore sul nulla, fra macchine d’epoca e vaniloquio anziano), riandare con la memoria a colpi di sceneggiati RAI (aggiungere sempre: “la più grande e importante industria culturale del Paese”, mi raccomando, anche se il proprio livello culturale non supera la Sicilia fasulla e cialtrona declamata con la facondia del baro da Andrea Camilleri), mostrarsi commossi di fronte alle trasmissioni di Arte e anche a quelle, meno nobili e più mediocremente banali, di Classica, citare Bakhtin nella speranza di non confonderlo con il Bactrim, esaltare l’OLP, mettere la bandiera arcobaleno al terrazzino del bagno di servizio (quello stentatamente concesso ai bisogni della servitù).

Di fronte a tutto questo, ai volumi mai letti de Il Mulino, alle intonse pagine di Gramsci, ai discorsi in centinaia di tomi di Enver Hoxha, al ricordo commosso di Benigni che, incurante dell’ernia, imbraccia Berlinguer come un M-16, cosa volete che sia Sanremo? Quando persino un intellettuale sopraffino come Gasparri si lamenta della scarsa rivoluzionarietà dei Pooh, scambiandoli per i CCCP (altrimenti definiti Cor Cazzo Che Perdemo) è evidente che l’Apocalisse si avvicina, con grande, intima soddisfazione di San Giovanni (uno che di Sanremo aveva capito tutto già in tempi non sospetti). Guardando (mirabile regia ispirata a Hyeronimus Bosch) una ravvicinata inquadratura, un vero close-up, della bocca spalancata di Arisa, lingua enfiata e biancastra, denti come le zanne di Mackie Messer, labbra turgide come simboli fallici sognati da Jeff Koons, vien da pensare non al Vangelo di Eva di Epifanio di Salamina, non a un’immagine sfregiata da Henry Miller, non al delta di Venere dell’Anaïs Nin o alla settima era di Gioacchino da Fiore ma a un’adeguata raffigurazione dell’appuntito nulla di cui ci nutriamo quotidianamente da decenni, illudendoci di quel meilleur des mondes possibles cui non avrebbe creduto neanche Candide.
(Gianni Morelenbaum Gualberto)

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