FREE FALL JAZZ



Nelle note scritte sul libretto di sala per il concerto, la direzione artistica sottolineava come, almeno per il pubblico italiano, Roger Kellaway sia una sorta di “segreto ben nascosto”. Un fatto in prima istanza poco spiegabile, considerato il valore oggettivo del settantaseienne pianista, compositore e improvvisatore di consolidata fama e di lunga carriera, non solo in ambito canonicamente jazzistico. Kellaway in effetti risiede felicemente in California (ma è del Massachusetts) da decenni e pare non ami fare la vita randagia tipica del jazzista giramondo. Di conseguenza, non capitava in Italia addirittura dai primi anni ’70, tramutando perciò questa unica data milanese in un evento, una prima assoluta per molti appassionati. Ovviamente non ci siamo fatti sfuggire l’occasione di poterlo apprezzare “live” ed in effetti il pianista californiano d’adozione non ha tradito le attese, sfornando una esibizione di piacevolissimo ascolto ma anche di grande sostanza musicale. Kellaway si è dimostrato quell’annunciato originale interprete del “Great American Songbook” e del blues che diverse sue incisioni discografiche avevano già da tempo evidenziato. La sua lettura di certi battutissimi classici come Have You Met Miss Jones?Here’s That Rainy Day, Estate e My One and Only Love è stata esposta in una chiave estremamente personale, armonicamente rigogliosa e sofisticata, utilizzando un pianismo completo, ricco cioè di riferimenti alla profonda tradizione dello stride e dell’honky tonk/barrell house, passando per Teddy Wilson, Art Tatum ed Oscar Peterson, ma anche in grado di inserire opportunamente modalità esecutive più ardite, proprie dei pianisti più avanzati.  Una sorta di sintetica carrellata storica intorno al pianismo improvvisato americano.

L’esibizione pianistica in solo è una prova impegnativa e rischiosa per qualsiasi pianista, in quanto lo obbliga a crearsi un adeguato supporto ritmico/armonico, compensando l’assenza dell’usuale sostegno del basso e della batteria e costringendo l’esecutore a crearsi anche gli adeguati “arrangiamenti” indispensabili a personalizzare le versioni dei brani proposti. Occorre cioè avere una preparazione e una visione complete della musica. In questo senso, Kellaway non ha mostrato alcun genere di problema, potendo mettere in campo tutta la sua eclettica esperienza anche nel settore dell’accompagnamento di grandi cantanti pop, come Bobby Darin e Barbra Streisand, e nella scrittura di colonne sonore ed arrangiamenti per il cinema e la tv. Egli ha poi mostrato sulla tastiera una solidissima mano sinistra, in grado di sviluppare un poderoso walking bass (non a caso, lui stesso ha sottolineato di considerare il contrabbasso come il suo secondo strumento, e si è ben sentito) e un intelligente uso dei bassi e del pedale anche in chiave coloristica e dinamica. Il clou del concerto si è comunque raggiunto sui blues, con l’esecuzione dell’ellingtoniano C Jam Blues  quasi totalmente riscritto e, soprattutto, di un lungo e pirotecnico All Blues, dove Kellaway si è esaltato in una improvvisazione ardita e virtuosistica, ma anche estremamente fantasiosa e coinvolgente per il pubblico.

L’altra faccia della sua esperienza ed impronta musicale si è rivelata, del tutto diversa, sui brani originali, per quanto meno apprezzati da chi scrive. Una cinquina di brani ben distribuiti nel programma, in cui la chiave di ispirazione stavolta è stata più melodica e popolare in alcuni temi (eseguendone anche uno ricavato da una famosa sigla televisiva e un altro scritto in Italia per Gigi Campi, produttore della Clarke & Boland Big Band, negli anni ’70 a Roma) e crepuscolare in altri, caratteristica peraltro dell’ambito californiano. Qui il suo pianismo si è distanziato perciò dall’ortodossia jazzistica, spostandosi su un versante più prossimo alla cosiddetta “Americana”.

Un’ultima osservazione la vorrei dedicare ad un particolare apparentemente marginale del concerto, ma che invece ha la sua importanza. Kellaway in alcuni momenti, come nel bis di My One and Only Love, ha voluto accompagnare sottovoce i temi eseguiti con il testo proprio della canzone suonata, evidentemente ritenuto indispensabile per catturare l’esatto feeling da imprimere all’esecuzione. Un evidente testimonianza di come la conoscenza completa della composizione sia fondamentale per l’improvvisazione e la giusta interpretazione musicale del brano pensato dai suoi autori. Una lezione per tutti quanto mai significativa.
(Riccardo Facchi)