FREE FALL JAZZ

Christian Scott, lo abbiamo detto e ridetto, è passato dall’Italia proprio ora per tre concerti a cui nessuno di noi, purtroppo, ha potuto assistere. Tuttavia, con un po’ di contatti via email e Facebook, siamo riusciti per lo meno ad organizzare un’intervista telefonica durante una pausa del soundcheck della data bolognese al Bravo Caffé. Dieci minuti scarsi, ma Christian si è dimostrato simpatico ed interessante. Nella speranza di bissare il prossimo luglio, quando tornerà per suonare in un festival (non sappiamo ancora quale), ecco il risultato della chiacchierata.

Un anno e mezzo fa, forse due, parlavi di pubblicare un disco dal taglio hip-hop ma del tutto acustico e un altro blues. Hai accantonato l’idea per concentrarti su ‘Stretch Music’?
In un certo senso sì, ‘Stretch Music’ comprende entrambe le anime in un formato più diretto. Non ho accantonato quell’idea del tutto, vedremo più avanti – adesso è presto per pensare già ad un nuovo disco, figuriamoci a due!

Questa volta hai puntato sulla sintesi, rispetto al complesso e mastodontico ‘Christian aTunde Adjuah’…
Se si parla di durata di sicuro, ma questo album contiene musica più complessa. I brani sono meno e sono più corti, ma in ognuno di essi accadono tantissime cose contemporaneamente: è musica più difficile, per noi che la suoniamo, ma più facile per voi che ascoltate. Penso sia l’equilibrio perfetto, almeno fino ad oggi.

Come ti è venuta l’idea di affiancare alla pubblicazione del disco quella di un’app?
Volevo fare qualcosa dal punto di vista della didattica, e ad un certo punto mi è venuto in mente che oggi tutti hanno smartphone o tablet: perché non utilizzare le potenzialità di questi mezzi tecnologici? Con l’app puoi ascoltare le canzoni isolando tutte le tracce strumentali che vuoi, alterare il mix etc. Puoi esercitarti, da solo o in gruppo, sulla mia musica. Penso sia importante, per noi musicisti, impegnarci pure su questo fronte. Una volta queste possibilità nemmeno c’erano, oggi è un peccato trascurarle.

Rientra in quest’ottica pure la scelta di registrare l’album al Berklee College Of Music, dove hai studiato?
Berklee è la miglior scuola di musica che ci sia! Visto quanto mi ha dato, mi è sembrato bello tornare lì e registrare l’album nel loro studio, uno dei migliori del mondo. In un certo senso è un omaggio ad un uomo straordinario come il preside Roger Brown, che è stato fondamentale per la mia crescita.

Nei tuoi primi due dischi eri affiancato da musicisti della tua età, come Walter Smith III, Esperanza Spalding o Aaron Parks, mentre ora sei tu l’anziano del gruppo. Pensi sia importante trasmettere l’esperienza ai giovani musicisti?
E’ fondamentale! Puoi studiare tutta la musica che vuoi nelle migliori università o scuole di musiche, ma senza la prassi del palco di mancherà sempre qualcosa. Sul palco capisci come reagire in tempo reale agli stimoli, come collaborare con la band, come dirigerla e come coinvolgere il pubblico. Capisci cosa funziona e cosa no. Se vuoi che la tua musica sia viva, il palco è indispensabile. Chiaramente, il primo passo è suonare con gente più esperta di te, e diamo già per buono lo studio.

Tu hai cominciato con tuo zio, Donald Harrison – dal vivo prima, poi su disco, in ‘Real Life Stories’ e ‘Kind Of New’. Nel primo di questi due album, secondo me, si può già sentire in parte la musica che poi svilupperai nella tua carriera. Quanto è stato importante lavorare con lui?
Moltissimo, anzi, ti posso dire che rispetto a molti miei colleghi e coetanei sono stato fortunatissimo. Fu proprio mio zio a regalarmi una tromba da bambino, notando il mio interesse per la musica. Quando poi ho iniziato a studiare e a diventare un discreto trombettista, mi ha incoraggiato sempre più fino a portarmi con sè in tour e infine a farmi incidere per la prima volta. ‘Real Life Stories’ è un ottimo disco, sono ancora orgoglioso di avervi preso parte. Sia quello, sia ‘Noveau Swing’ sono lavori molto interessanti che non hanno avuto il riscontro meritato. Ed è vero che proprio da quell’esperienza sono partito per elaborare la mia musica.

Nella tua musica, appunto, l’estensione dei confini del jazz avviene recuperando le fila di musiche popolari che dal jazz stesso sono nate. Volendo vedere, è quello che è sempre successo, eppure come mai secondo te c’è chi parla di “commercializzazione”?
E’ vero che è sempre successo, non ci piove. Anzi, il jazz per sua natura è musica comunicativa, inclusiva, addirittura comunitaria, non certo da torre d’avorio. Se osserviamo la carriera di gente come Art Blakey, Miles Davis, Horace Silver, Cannonball o Freddie Hubbard, per citare giusto i primi che mi vengono in mente, possiamo osservare come la loro musica sia cresciuta dialogando in maniera costruttiva con la musica popolare del loro tempo. Io seguo lo stesso pensiero, e so bene di non essere il solo, molti della mia generazione lo fanno. Poi che a qualcuno non piaccia è naturale. Non puoi piacere a tutti, se parti con quell’obiettivo non caverai un ragno dal buco. Voglio portare la mia musica al maggior numero di persone possibili, che siano appassionati di jazz, rock, hip-hop o country non me ne frega niente. Se ti piace, sei il benvenuto.

Sei comparso, assieme ad altri giovani musicisti jazz, in un servizio fotografico di Vanity Fair. Credi che la visibilità del jazz possa aumentare con trovate simili?
Mettiamola così: male non può fare di certo, giusto? Tanto vale cogliere l’opportunità, al peggio non cambia nulla.

(Intervista raccolta da Negrodeath)

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