FREE FALL JAZZ

Normalmente, quando facciamo un Picture This, scriviamo due paroline due per introdurre musicista e filmato, niente di che. Stavolta però è il caso riportare integralmente il commento del nostro Riccardo Facchi a questo splendido concerto del Modern Jazz Quartet. Pochi musicisti sono stati trascurati e vilipesi quanto John Lewis, in Italia, dagli anni ’70 in là. Forse è il caso di riparare, in qualche modo. Qui sotto il video, che riprende il Modern Jazz Quartet al festival jazz di Nizza nel 1972. A seguire, il commento di Riccardo. E sapete una cosa? Aggiungi qui e aggiungi là, da Picture This siamo arrivati ad uno Speciale!
(Negrodeath)


 

Risentendo questo splendido concerto del MJQ ci si rende conto come su John Lewis si sono per decenni sviluppati degli stereotipi a proposito del suo amore sconfinato e incondizionato per la cultura musicale europea: era opinione di alcuni che, in fondo, lui mirasse più verso quella che al jazz (stereotipo che per diverso tempo è stato utilizzato anche su Duke Ellington per certe sue opere sinfoniche, ma di fatto anche in questo caso si tratta di un misunderstanding). Io non sono molto d’accordo, non nel senso che non fosse vero il suo amore verso la nostra cultura musicale, ma che in realtà lui non abdicasse affatto dalla sua cultura verso quella altrui. Ne sia la prova il suo assolo su ‘The Legendary Profile’, così intriso di blues feeling, con accenni “eleganti” tipici del suo stile pianistico essenziale e sobrio persino nell’approccio “soul” (ma potrei fare decine di esempi nella sua discografia). Lewis, nonostante fosse stato uno dei protagonisti assoluti della Third Stream, era intriso di blues e di cultura musicale nera sino al midollo, solo che lo faceva filtrandola con la sua estetica e il suo stile di uomo elegante estremamente colto. Secondo me tra i jazzisti è stato uno degli interpreti del blues più eleganti e importanti. Direi che ‘Django’, con la sezione blues inserita in una struttura compositiva molto elaborata e che omaggia in un certo senso la musica colta europea e naturalmente Django Reinhardt, è il sintomo inequivocabile di come lui davvero avesse compreso come la cultura musicale afro-americana potesse integrarsi perfettamente con quella europea. Un genio, oggi molto ma molto sottostimato, rispetto ad altri successivi jazzisti, o semplici improvvisatori afroamericani che a mio avviso si sono dimostrati, al di là di certe apparenze e stereotipi, assai più succubi verso la musica colta europea rispetto a quanto si sia detto nei suoi confronti.

Sul modo di coniugare la musica colta europea e il jazz in molti si sono cimentati e oggi ancora si cimentano con risultati spesso discutibili e ambigui, ma John Lewis, forse ancor più di Schuller e di molti altri protagonisti del movimento sorto negli anni ’50 è davvero riuscito musicalmente e nei fatti a raggiungere buoni risultati in una impresa in cui mettere insieme i formalismi compositivi e i concetti accademici con lo swing , il blues, l’improvvisazione e la tradizione afro-americana è davvero cosa ardua. Credo che la struttura compositiva di ‘Django’ non solo sia un esempio massimo di capolavoro compositivo del jazz, ma lo sia proprio nel senso detto. ‘Django’ possiede infatti una struttura compositiva che approssimativamente potrebbe essere così descritta: una canzone ABC di 32 battute (struttura tipica della canzone che fa da chorus per le improvvisazioni) ripetuta tre volte tra un preludio ed un epilogo. Preludio ed epilogo sono di 20 battute, la sezione A è di 12 battute swing, la b 8 battute di ostinato e C di 12 battute di cui 4 swing e 8 blues. La cosa interessante è che Lewis è riuscito ad inserire in una struttura relativamente più complessa per una composizione jazz sia lo swing che il blues, in una concezione compositiva generale che ha molte prossimità con la musica colta europea. Cioè è riuscito ad inserire perfettamente due degli elementi cardine della cultura musicale afro-americana in una forma complessivamente più prossima a quella europea. Assai raramente ci è capitato di ascoltare risultati musicali di questo livello nell’ambito della cosiddetta Third Stream, spesso pretenziosa e ritmicamente troppo pesante e rigida, e secondo il mio parere non è un caso che ad un risultato del genere sia riuscito ad arrivarci un jazzista afroamericano conoscitore della musica colta europea e non un europeo conoscitore della musica afroamericana.
(Riccardo Facchi)

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