FREE FALL JAZZ

Il teatro di rivista, o rivista, era una forma teatrale molto in voga nello primo trentennio del ’900. Si trattava di una serie di numeri (musicali, danza, sketch comici) a catena, dal carattere spesso ironico quando non satirico verso gli avvenimenti e le personalità del periodo. Battute mordaci e nudità femminile non erano mai assenti. Con la nascita del cinema, le riviste passarono dal teatro al grande schermo, con un’opulenza degna dei kolossal di Hollywood. Nel 1947 esce ‘Jivin’ In Bebop’, una rivista cinematografica a tutto jazz, con un cast musicale da infarto: l’orchestra di Dizzy Gillespie, con tanto di Milt Jackson, Ray Brown e John Lewis, la grande voce di Helen Humes, quella non altrettanto grande di Kenny Hagood, e un gruppo di ballerini. Le recensioni non furono molto lusinghiere, soprattutto per quanto riguarda le coreografie e gli sketch comici, anche se tutte lodavano la musica (‘Salt Peanuts’, ‘One Bass Hit’, ‘Oo bop Sh’bam’, ‘Ornithology’, ‘A Night In Tunisia’… ci sono quasi tutte!) e la grande verve di Dizzy, showman a tutto tondo. In ogni caso, potete farvi un’idea personale di questo film in un battibaleno, perché lo includiamo nel post. Su Wikipedia potete levarvi ogni curiosità residua.



Ok, visto? Musica bebop E ballo! Ma come? Non si diceva che Charlie Parker e Dizzy Gillespie volessero essere trattati come veri artisti  (perché Louis Armstrong o Count Basie, invece, ci tenevano molto a sembrare umili e rozzi menestrelli) e creatori di uno stile musicale da ascoltare e non da ballare (si prega di arricciare il naso in un’espressione di lieve disgusto)? Eppure è certamente vero che, negli anni di ascesa del bebop, il ballo durante le esibizioni dal vivo era inesistente. Ma forse bisognerebbe anche dare un’occhiata alle condizioni di contorno. Per esempio, alle tasse. Nel 1944, per far fronte alle spese di guerra, fu varata una micidiale tassa del 30% che andava a colpire ogni ricevuta emessa da qualsiasi tipo di locale che offrisse cibo, bevande e la possibilità di ballare – la cosiddetta, e famigerata, cabaret tax. Visto che ballare era l’attività preferita di chi usciva, l’impatto fu devastante: solo Duke Ellington riuscì a mantenere intatta la sua orchestra, e molti locali furono costretti a chiudere. [link] In queste condizioni, il bebop era avvantaggiato: piccole formazioni per piccoli club, per evitare la cabaret tax. Secondo l’autorevole parere di Max Roach, “This tax is the real story why dancing … public dancing per se … were [sic] just out. Club owners, promoters, couldn’t afford to pay the city tax, state tax, government tax” [link]. Quando la tassa fu ridotta, il panorama era completamente cambiato. Per risollevare le sorti delle sale da ballo ci vorrà una nuova generazione, che però preferirà il rhythm’n'blues o il rock’n'roll.

Il bebop non nasce dal nulla,lo sappiamo bene: il jazz per piccole formazioni stava prendendo sempre più piede e la transizione fu aiutata in ogni senso da musicisti come Benny Carter, Coleman Hawkins, Roy Eldridge e Lester Young. Pareva tuttavia naturale e normale, nel 1947, darne una visione cinematografica con balli e coreografie, pur se la musica era quella innovativa dell’orchestra di Dizzy. Questo perché faceva tutto parte di un continuum. Un continuum che non ha mai escluso in maniera volontaria e programmatica il ballo, anzi. Non sarebbe forse il caso di mandare in pensione un bel po’ di pregiudizi?
(Negrodeath)

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