FREE FALL JAZZ

C’è chi tenta il bluff e chi ha in mano un poker d’assi: qui parliamo del secondo caso.

Gli assi in questione sono Enrico Zanisi, Luca Bulgarelli e Fabrizio Sferra sotto la guida esperta del flautista e sassofonista Paolo Innarella; l’album di recente uscita è ‘Les Jardins Perdue’.

Paolo Innarella è un nome noto agli addetti ai lavori, io ho un suo splendido lavoro del 2007 dal titolo ‘Melodic Art’ edito per la AlfaMusic con Lutte Berg alla chitarra (in forma smagliante!), Ares Tavolazzi al contrabbasso ed Emanuele Smimmo alla batteria e da tempo avrei voluto scrivere di lui.

Il musicista campano conferma l’alta qualità delle sue collaborazioni e della sua produzione discografica. Ecco qualche domanda per lui.

Ciao Paolo, iniziamo parlando di Melodic Art perchè è un disco che amo particolarmente.
Melodic Art rappresenta un momento di svolta della mia vita musicale. Dopo aver praticato, per motivi di piacere musicale, ma anche per semplice mero lavoro di musicante, i più svariati generi musicali, mi venne voglia di dare seguito alle cose che scrivevo. Nel giro di qualche mese ci ritrovammo nella sala di registrazione dell’Alfa Music a Roma io, Lutte Berg, Ares Tavolazzi ed Emanuele Smimmo. Avevo già provato la strana e bella sensazione di registrare i propri pezzi ma, per vari motivi non avevo ancora pubblicato nulla a mio nome. ‘Melodic Art’ fu fortemente voluto non solo da me, ma anche dai musicisti con cui lo registrai e dalla Alfa Music. Fu come tirare le somme e quindi prendere anche le misure di un periodo fatto di tanto studio e tanto “mestiere” di musicista sia a Roma che in giro per l’Italia.

Nel tuo ultimo lavoro ‘Les Jardins Perdue’ ti sei concentrato esclusivamente sul flauto traverso. Parlaci di questa scelta, della genesi del disco, dei brani… Vai a briglia sciolta!
Tu mi chiedi il perché del flauto! Citando un cantautore con cui collaboro ti dico: come lo stelo porta al fiore, così io, col passare degli anni, ho sentito sempre più l’esigenza di tornare allo strumento da cui sono partito con la banda del mio paese in Irpinia. Non è un fatto di nostalgia, ma lo strumento con cui cresci fin da bambino ti resta attaccato addosso. Avevo 9 anni quando iniziai a suonarlo, poi mi ci sono anche diplomato: al Conservatorio di Avellino, nel lontano 1983. Quanto tempo! Comunque questo non è il primo lavoro che faccio esclusivamente al flauto: ho pubblicato già un disco per flauto, pianoforte preparato e voci recitanti, su testo liberamente tratto dall’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. Con ‘Les Jardins Perdue’ spero di aver iniziato un percorso che mi porti ad essere sempre più un jazzista che valorizzi il flauto e si valorizzi grazie al flauto, uno strumento che secondo me ha ancora un enorme potenziale espressivo in ambito jazz. Per fare questo disco sono partito immaginando la sonorità di un quartetto jazz anni 60, sostituendo però il sax con il flauto: un po’ come se in ‘Kind Of Blue’, Cannonball avesse suonato il flauto invece che l’alto. Oddio, che bestemmione che ho detto! Però è bello giocare un po’ con queste sostituzioni strumentali, no? Beh, comunque la pensiate, a me diverte molto pensare a John Coltrane fare tutto ‘A Love Supreme’ col clarinetto! Mi risulta molto strano, a tratti anche inascoltabile, però mi diverte immaginarlo! Il lavoro di scrittura di ‘Les Jardin Perdue’ è durato quasi una anno tra interruzioni varie. I musicisti che ho chiamato li ho scelti proprio per cercare di creare in studio le sonorità che avevo immaginato scrivendo. La caratteristica di questo lavoro dal punto di vista compositivo è data anche dall’averlo pensato come un insieme, legato da un filo conduttore: i miei ricordi di bambino che assisteva a un fenomeno devastante come quello dello spopolamento del proprio paese a causa dell’emigrazione. Ogni tanto qualche compagno di scuola o di giochi partiva con i genitori per il nord Italia o la Germania o la Svizzera e tu rimanevi sempre un pochino più solo, un pezzettino alla volta! Potevi percorrere intere strade del paese ascoltando solo il suono del vento, non di un solo essere umano. ‘Les Jardins Perdue’ è dedicato al sud Italia e ad altri sud che subiscono lo stesso dramma, spesso per scelte imposte da interessi altri rispetto a quelli delle popolazioni locali. La traduzione letterale del titolo risulta sgrammaticata così come lo è in francese, ma è la citazione di una frase di un anziano signore che per un paio di estati tornò al paese natio dalla Francia, per noi allora lontanissima, in cui era emigrato in età giovanile. Mi parlava della storia falsata che ci veniva raccontata sull’unità d’Italia, di come la storia venne scritta dai vincitori, cioè i Savoia, cambiando i fatti a proprio uso e consumo. L’incipit iniziale era sempre uguale: “guagliò quest’è na brutta storia”. La sua lezione-monologo terminava sempre con la frase “Una volta eravamo i giardini d’Europa e mo’ tutto è perduto” noi, siamo “I Giardini Perduto” e poi in Francese aggiungeva: “Le jarden perdu”!

Per finire: dacci un parere sulla condizione della cultura e in particolare del jazz nel nostro paese. Cosa manca secondo te, e cosa c’è di buono?
Difficile rispondere a questa domanda, verrebbe da inserire il pilota automatico e iniziare il solito piagnisteo e sarebbe del tutto comprensibile viste le poche risorse a disposizione e l’impiego delle stesse, troppo spesso opaco e non comprensibile. Il momento è tra i più difficili che io conosca. In 30 anni e più di vita musicale, questo è il periodo più duro che io stia vivendo eppure, anche adesso, si percepiscono segni di una vitalità culturale che in barba alla situazione di sconforto generale si agita e cerca sue strade per venire alla luce. La vitalità di questo benedetto-maledetto paese continua a risiedere nei talenti che riesce ad avere nonostante lo scarso impegno istituzionale al sostegno degli stessi.

Adesso è il momento della “Selfie Intervista”.

(Autodomanda)

Per te, cos’è il jazz?

(Autorisposta)

Il jazz è una musica popolare che si fa colta, che è un modo di pensare, e a 53 anni inizio a dire: anche di vivere. Il jazz è stato ed è precariato che si fa stile di vita, bellezza e condanna insieme. Per me, il Jazz è stare lungo il bordo delle sicurezze musicali, dei canoni già stabiliti, in perenne bilico tra la bellezza dell’armonia e la sua trasgressione, senza rifiutare la tonalità o la atonalità. Il Jazz è la possibilità di poter provare una frase estemporanea o una sensazione musicale sapendo di poter sbagliare e di trovare un pubblico capace di cogliere e apprezzare il pensiero che hai inseguito, che ti sia riuscito bene o meno. Forse sto sognando, il mondo va in altre direzioni, forse sì, ma se non ami e insegui il sogno come i bambini o gli adolescenti, puoi fare Jazz?

(Intervista a cura di Carlo Cimino)

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