FREE FALL JAZZ

Della sacra trimurti dei sassofonisti pre-bop Ben Webster è stato forse quello meno “in vista” (gli altri due sono, ovviamente, Lester Young e Coleman Hawkins), cionondimeno il suo corposo tenore ha segnato in maniera indelebile il jazz della prima metà del ‘900, inizialmente nell’orchestra di Ellington (sodalizio che, leggenda vuole, finì quando il sassofonista rovinò un vestito del maestro Duke), poi con un pugno di (notevolissimi) dischi su Verve negli anni ’50, che si guadagnarono il plauso delle orecchie più attente. Inevitabile, come per molti colleghi della sua era, il calo di popolarità negli anni ’60: fu una delle ragioni che lo spinsero a stabilirsi in Europa (tra Amsterdam e Copenaghen), dove, riverito e rispettato, continuò a portare in giro per i locali i successi di sempre.

Quegli ultimi spiccioli di carriera sono stati documentati più volte, seppur in maniera frammentaria: qualche incisione buona, molte altre incomplete o amatoriali; qualcuna ristampata in tutte le salse, qualcun’altra persa nell’oblio. Ad aggiungere un tassello importante ci prova la Storyville, che restaura e propone su CD un concerto in terra norvegese (a Trondheim) risalente al 1970, in cui quel sax dall’inconfondibile tono “soffiato” si fa accompagnare da un trio di musicisti locali (piano/basso/batteria). Anche in questo caso la sorgente è un nastro amatoriale, seppur di qualità più che discreta: a uscirne penalizzato è giusto il pianoforte di Tore Sandnaes, “sepolto” dagli altri strumenti, che sembra comunque un buon epigono di Oscar Peterson (il quale proprio con Webster aveva fatto cose egregie).

La scaletta non offre sorprese: come da copione, tanto Ellington e qualche standard. È la performance semmai a impressionare, con un Webster in grande spolvero che non rinuncia neanche a qualche momento più graffiante. Gli assoli sono incisivi e, come nel caso di altre registrazioni simili, è interessante ascoltare i musicisti incitarsi a vicenda e “chiamarsi i colpi” (notevoli quelli del batterista Bjørn Alterhaug peraltro, di sicuro cresciuto a pane, Blakey e Roach). Peccato per la conclusione: ‘My Romance’ sfuma dopo nemmeno tre minuti (a causa del nastro esaurito, supponiamo), chissà per quanto ancora sono andati avanti su quel palco.

Interessante dal punto di vista documentaristico e piacevole da quello musicale, ‘In Norway’ è un appuntamento da non perdere per gli appassionati “già svezzati”. Chi è a digiuno potrebbe trovare in queste note il viatico verso il resto della produzione di Webster, ma in quel caso sarebbe forse più indicato partire da un gran disco come ‘Soulville’ (1957). Ad ogni modo, un’occasione in più per parlare di un musicista mai elogiato abbastanza: ben venga. (Nico Toscani)

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