FREE FALL JAZZ

Per chi non avesse avuto ancora la fortuna di vederlo esibirsi dal vivo, questa prima produzione discografica del trio di Giuseppe Vitale (classe 1999 e originario di Vigevano) è sufficiente a dare un’idea della distanza che la separa da certa antipatia programmata cui ormai il jazz nostrano viene troppo spesso ricondotto e accostato. Juttin’Out (uscito per Emme Record Label lo scorso 30 marzo), fin dal titolo, ha l’ambizione di collocarsi in un panorama artistico internazionale, proponendosi come catalizzatore di tutte quelle espressioni musicali assorbite da una band i cui membri raggiungono – in tre – i cinquantacinque anni di età.  Completano il trio il vigoroso batterista Edoardo Battaglia, e Stefano Zambon, funambolico contrabbassista di appena un anno più anziano. I fratelli Cutello (Giovanni all’alto sax, Matteo alla tromba) partecipano al progetto buttandosi nella mischia con entusiasmo, evitando con cura virtuosismi sterili e protagonismi di ogni genere. Anzi, il dialogo fra fiati e pianoforte saprà risultare un eccellente punto di forza sia in un pezzo dal sapore caleidoscopico come Mins Means che nella splendida ballad VI Leaf. E se la title-track è un concentrato di hard-bop finemente frullato ad altri, innovativi ingredienti, la successiva Argentina basta a consegnare di diritto questo esordio discografico alle migliori cronache del jazz contemporaneo. Come un pugile abituato a saltellare qua e là per assestare i suoi colpi migliori, Giuseppe alle battute finali di Silver C.U.C.U. porta in scena il synth- da lui impiegato più intensamente in sede live -a cui consegna il compito di tracciare un solco preciso fra le due metà dell’album: un musicista così giovane che compone seguendo un percorso e una volontà di inventiva tanto personali non ha da regalare tormentoni o faciloneria ad anima viva. Tutto Juttin’Out può offrire stupore per il tipo di scelte stilistiche intraprese e fino alla fine si delineano nuove tensioni: dapprima, nel ritorno al trio classico di Troppo di recente, la cui semplice intelaiatura viene però incessantemente trasformata dal contrabbasso di Zambon in quella che somiglia a una massa ipertrofica di note, e poi nella cover di Black Inside di Antonio Faraò, pianista romano e vero e proprio punto di riferimento per il trio. Ogni membro della band (qui di nuovo completa di fiati) sembra regalare uno sguardo limpido e innocente a un brano tutt’altro che celebre, ripulendo l’uditorio da quei pregiudizi che vedrebbero obbligatoriamente nello standard della “vecchia scuola” (preferibilmente afroamericana) l’unica scelta da abbracciare. Una mossa che – parimenti a tutto ciò che l’ha preceduta – appare lontana dalle convenzioni e dal dilagante effimero del jazz attuale.
(Ferruccio Bellesi)

Comments are closed.