FREE FALL JAZZ

È sempre più frequente sentire intorno al jazz discorsi che tendono a rimarcare più che la centralità del contributo afro-americano, di quello europeo, in una sorta di revisionismo storico e critico da tempo in corso che come minimo lascia perplessi.

Certa musicologia nostrana arriva ormai a sostenere e persino a scrivere che il jazz è un linguaggio universale, sganciato quindi completamente dal suo luogo di nascita, l’America, pluri contaminato e suonato in tutte le parti del mondo e ormai scevro dalle diverse influenze e dai diversi contributi etnici che hanno contribuito a farlo nascere e sviluppare, criticando certi storici americani  che continuano a considerarlo un sostanziale fenomeno americano. Addirittura ci si è spinti a sostenere, per rafforzarne la tesi e utilizzandolo come implicita prova, che pressoché tutti i musicisti afro-americani, almeno da Gottschalk in poi, hanno ricevuto una educazione musicale basata prettamente sulla cultura musicale europea, assorbendone in gran parte concetti, modalità formali, compositive, esecutive e quant’altro. Quindi, non solo è confutabile la centralità americana nella formazione del linguaggio jazzistico ma addirittura si potrebbe arrivare a dimostrare la centralità di quella europea, descrivendo il jazz come un linguaggio in ultima analisi costituito linearmente da elementi di radice europea e al più africana.

Ora, al di là del fatto che questo genere di tesi sono abbastanza facilmente confutabili sia nel merito che nel metodo, in quanto fondamentalmente dimentiche di come la formazione di qualsiasi linguaggio, non solo quello musicale, sia influenzata dall’ambiente sociale e dal luogo in cui viene a formarsi in modo assolutamente determinante, ci sono e ci sono stati degli esempi viventi tra i protagonisti di questa musica che personificano la confutazione di certe tesi che di fatto si rivelano solo per essere ambigue e pure volgarmente tendenziose, più che oggettivamente storiche.

Ieri sera mi sono ad esempio “bevuto”, con gran godimento, questo splendido filmato di una tournée europea del quartetto di Thelonious Monk nel 1966.



Non ho bisogno di scrivere altro sul tema. Inviterei semplicemente ad ascoltarlo attentamente e ad osservare come e cosa suona il genio innarrivabile di questo afro-americano, originale sin dal nome che porta. Un afro-americano, ricordo,  appartenente ad una etnia resa schiava, socialmente e culturalmente succube per secoli, sino ai nostri giorni, spiegando prima a se stessi che ad altri, se possibile, quanta anima europea e quanta Europa trova nel suo pianismo, nella sua concezione musicale e nel suo modo di suonare. Qualcuno davvero crede che un musicista e pianista di questo genere poteva essere partorito dall’Europa e dalla sua suprema, inarrivabile cultura musicale? Io non credo, direbbe l’On. Razzi…
(Riccardo Facchi)

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