FREE FALL JAZZ


Dopo aver recensito l’eccellente ‘Pivot’, un’intervista a Melvin Jones ci stava proprio bene. Però chissà se Melvin capiterà mai dalle nostre parti, e in tal caso chissà se sarebbe possibile organizzarla. E nonostante il prestigio internazionale della Free Fall Mansion, e nonostante il jet privato che ci consentirebbe di volare ad Atlanta, assistere ad un bel concerto, intervistare il trombettista e tornare a casa in tempo per vedere ‘Mucca e Pollo’, non ce la siamo sentita di vanificare gli sforzi di tutti coloro che hanno tirato su la rete telefonica mondiale, inventato il computer, e sorprattutto Facebook. E dunque, dopo un rapido scambio di messaggi, il buon Melvin si è dimostrato gentilissimo, rispondendo in tempo quasi reale alle nostre domande. Noi possiamo vantarci di esser stati i primi, in Italia, a parlarvi lui. Voi fareste bene ad ascoltare la sua musica, un superbo lavoro che conferma la modernità inesauribile di tutto quel jazz che parte dall’hard bop.

Ciao Melvin, puoi presentarti brevemente?
Sono Melvin Jones, trombettista e musicista per la Turnaround Records. Sono pure endorser per le trombe Pheaton e ex direttore delle bande della mia università, il Morehouse College di Atlanta, Georgia.

Quando hai cominciato a lavorare alla musica di ‘Pivot’?
Solo due brani di ‘Pivot’ (‘The Jug-Or-Knot’ e ‘Angels’) esistevano già. Ho scritto la quasi totalità degli altri nel 2010, mentre ero in tour per lo spettacolo di Tyler Perry. Sono riuscito a scrivere tutta la musica che volevo mentre eravamo on the road. In realtà, ed è buffo, non avevo nemmeno intenzione di registrare niente finché non mi sono reso conto che, con un disco da promuovere, avrei potuto assicurare molti più concerti alla mia band. E’ stato a quel punto che, quasi per grazia divina, è arrivato il contratto con la Turnaround che mi ha dato la possibilità di condividere la mia musica con un pubblico ben più grande di quanto mi sarei mai aspettato.

Hai fatto molte esperienze prima di uscire con un tuo disco. Non ti sentivi ancora pronto?
Ho solo pensato che questo fosse il momento giusto. Mi era già stato chiesto di registrare a mio nome, alcuni anni fa, ma non avevo abbastanza musica pronta. Da allora sono pure cambiato, credo di aver sviluppato un modo più concettuale di suonare. Vedi, pur avendo registrato parecchio negli anni, non lo avevo mai fatto nell’ottica del leader e dell’autore. Ora ho familiarizzato con l’intero processo, ma lo ripeterò solo quando avrò abbastanza materiale nuovo. Penso che molti artisti siano troppo frettolosi e gettino via la loro creatività nella speranza di ricreare un qualunque successo abbiano avuto in precedenza. Non fa per me: odierei l’idea di gettar via quello che sento realmente solo per rifare ciò che ci si aspetta da me. Tornando a capo, può sembrare esagerato, ma credo che il disco sia nato perché doveva. E ci vorrà un bel po’ per il secondo album!

Tutta la tua band è di Atlanta come te. Una scelta o un caso?
Una scelta. Spesso, quando si parla della scena jazz, il primo posto che ci viene in mente è New York. Non fraintendermi, perché c’è un’incredibile quantità di talento laggiù, come nelle aree vicine tipo Philadelphia, il New Jersey o Washington. Ma dopo aver lavorato per qualche anno in tutte queste zone, come pure nel Connecticut e a Boston, posso dire che onestamente il livello dei musicisti di Atlanta non ha nulla da invidiare a quello dei posti storicamente più legati al jazz. Atlanta, comunque, è di solito sinonimo di rap, r&b e smooth jazz, di conseguenza la sua scena jazz straight-ahead moderna passa in secondo piano. Così ho voluto fare la mia parte per mettere in luce un lato poco conosciuto di una città che, negli anni, ho amato sempre di più.

Nelle note di copertina parli del concetto di perno (pivot in inglese, nda): il jazz come perno su cui ruotare per ‘visitare’ altri mondi musicali. Come hai elaborato l’idea?
L’idea del perno, dal punto di vista musicale, è la chiave per la longevità nel mercato di oggi. La musica davvero significativa di solito combina elementi diversi, e il jazz stesso nacque dalla fusione di MOLTI stili differenti. Per tornare ad Atlanta, una delle cose che amo di questo posto è l’autenticità di ogni sua scena musicale. Volevo che il mio album rappresentasse tutte le esperienze che ho fatto qui, in particolare nel gospel, nel r&b, nel jazz straight ahead, nel blues, nello smooth jazz e nell’avanguardia. Anche i ragazzi che ho scelto per accompagnarmi riflettono la stessa idea. Ognuno di loro ha una carriera varia quanto la scena stessa, ma è in grado di cambiare stile senza mai perdere personalità e feeling. Di fondo, le note sono dodici, quindi tutta la musica, per lo meno occidentale, è in qualche modo interrelata. E’ proprio questa area comune, secondo me, la più meritevole di attenzione.

Quanto ti hanno influenzato i vari generi di musica che hai suonato?
Sono stato influenzato pesantemente da tutti. Tra l’altro ho cominciato a interessarmi al jazz piuttosto tardi, nella mia crescita musicale. Le mie prime esperienze risalgono alla chiesa, alla banda, e naturalmente all’ascolto di qualsiasi cosa passasse per tv e radio. Mi piaceva moltissimo suonare jazz già al liceo, ma non l’ho studiato seriamente fino agli ultimi anni di università. Dopo aver intrapreso il cammino del jazz, mi sono reso conto di quanto ci fosse in comune con gli altri generi di musica che già amavo. Era come se avessi già suonato del jazz perché il gospel, il pop, il blues… diavolo, tutto era già lì, profondamente legato e interconnesso. Penso di aver trovato la mia via al jazz grazie a questo, all’averci ritrovato ciò che già conoscevo bene. Non voglio essere ricordato come il tizio che suona uguale a quel tizio di sessanta anni prima. Però mi piace quando mi dicono che gli ricordo a volte questo, a volte quel trombettista, ma mai nessuno in particolare: vuol dire che ho combinato quei trombettisti in uno stile originale, frutto di varie influenze, certo, ma mio.

Trovo che il jazz straight, come il tuo, sia sempre una forza della natura. E’ musica moderna e contemporanea ma saldamente legata alla sua storia passata. Come mai molti critici tendono a sottovalutarlo o ignorarlo, preferendo magari del jazz-senza-jazz, anodino e incolore?
Penso che l’intellettuallismo, o meglio, l’eccesso di intellettualismo possa diventare il cimitero di ogni cosa. Mi viene in mente una frase, “paralisi dall’analisi”. Credo che la vera arte nasca senza una piano o una formula prestabilita a tavolino. Beethoven non aveva un piano, come non l’avevano Stravinskij, Ellington o Armstrong. Qualunque musicista può replicare quel che è stato fatto prima nei minimi particolari, basta studiare e individuare gli schemi e riapplicarli, ma quanti sanno davvero CREARE qualcosa con tutta quella conoscenza? Clark Terry una volta mi disse che il segreto della musica è “imitare, assimilare, innovare”. Il jazz-non-jazz che dici lo vedo come il frutto della situazione in cui non sono soddisfatte tutte e tre le condizioni. Gli imitatori non sviluppano idee personali. Gli assimilatori imparano molto ma non fanno niente. Gli innovatori perdono il punto fondamentale nella creazione di questa musica, perché non si preoccupano di conoscere a fondo cosa c’era prima di loro. Sono convinto che ci vogliano tutti e tre questi aspetti contemporaneamente per avere della bella musica che appaghi i sensi e abbia pure un’anima.

E’ importante, per il jazzista di oggi, confrontarsi col resto della musica?
Per esperienza, non solo è importante, ma anzi è segno d’ignoranza, per un jazzista di oggi, credere che i fondatori e gli innovatori di quest’arte non lo facessero già. Gli standard del jazz di oggi sono le canzoni pop di ieri, perché quelle persone vivevano il loro tempo, e condividevano le loro esperienze di vita attraverso la musica. Charlie Parker parlava di Stravinskij come di uno dei suoi compositori preferiti anche perché quest’ultimo era sempre vivo, e faceva discutere, negli stessi anni in cui lui si formava. L’armonia del bebop parte dalla riorganizzazione di canzoni e progressioni di accordi al tempo ben note. Le leggende del jazz di ieri facevano quello che noi, in parole povere, dobbiamo fare oggi. Musica e tempi saranno anche molto diversi, così come le sfide da affrontare, ma il concetto non cambia: vivi nel presente e parla delle tue esperienze attraverso la musica. Altrimenti pensala così: se tu fossi una pecora, non vorresti che il tuo pastore sapesse qualcosa dei lupi da cui ti deve difendere? Io mi sentirei più al sicuro con un pastore che ha già avuto a che fare coi lupi, e non solo con le altre pecore. Stessa cosa per quei musicisti che vogliono portare avanti il jazz: se non capiscono davvero la musica (il suo suono, il suo feeling, il suo spirito, e non solo la teoria musicale che ci sta dietro), probabilmente non ne guideranno mai l’evoluzione.

Purtroppo il jazz viene spesso visto come musica per vecchi, nonostante ci sia un grandissimo numero di musicisti giovani e in gamba. Forse perché le icone del jazz sono, nel migliore dei casi, molto anziane e, nel peggiore, morte?
Penso che questa associazione con la vecchiaia dipenda più da quei concerti in cui è sparita ogni minima traccia di ballo o danza. Ogni tipo di musica ha le sue icone giovani e vecchie, ma l’atemporalità viene dal modo in cui viene eseguita e recepita. Gran parte dei concerti con mecenati e sponsor seduti in prima fila piacciono al pubblico più maturo, che in effetti resta seduto. E’ questo il modo in cui si svolgono molti concerti classici, opere, recital, musical, e pure jazz. Ecco perché i giovani non sono necessariamente attratti da spettacoli del genere. Però poi ci sono persone come Trombone Shorty, che riescono a mantenere l’elemento del ballo senza sacrificare l’integrità artistica. Ed è quello il modo giusto per richiamare i giovani e restare fedeli a sè stessi. Il che non è differente da come è sempre stato, visto che una volta il jazz era musica da ballo e festa seguito dai giovani e dagli appassionati. Alla fine, chi va ad un concerto vuole godersi la musica e divertirsi, giovane o vecchio che sia. Questo ci riporta all’idea di abbracciare altri stili di musica al di fuori delle nozioni preconcette di cosa il jazz “debba essere” – musica iperintellettualizzata, snob e noiosa? No, grazie.

Tornando alle icone, hai suonato con Illinois Jacquet. Che ricordo hai di lui?
Una delle persone più gentili, paterne e sempre pronte a darti un consiglio fuori dal palco… e uno dei più duri, diretti leader sul palco! Lui e sua moglie sono stati davvero gentilissimi con me. So che molte storie sul suo carattere lascerebbero pensare il contrario, ma per il poco tempo che l’ho conosciuto è stato un maestro e un amico. Penso che fosse sempre così ben disposto verso di me perché mi presentavo sempre in orario, lavoravo seriamente e in generale non ero uno stronzo! E’ quello che ci vuole per riuscire bene in qualunque tipo di attività. Ricorderò sempre la sua gentilezza accoppiata ad un enorme talento sul palco: un eloquente emblema del fatto che non devi essere per forza un disadattato per essere un grande musicista!

Non credi che sia una figura ancora sottovalutata?
Per certi aspetti sì, molta gente non si rende conto della portata del suo contributo alla musica. Non credo che un sassofonista dovrebbe avere una laurea, o essere accettato dalla comunità jazz, se non ha familiarità almeno con l’assolo di ‘Flying Home’. E pure tutti i sassofonisti smooth del mondo gli devono molto per quel suono da ‘Texas Tenor’ che utilizzano spesso senza mai riconoscerne la paternità.

Da professore di musica, come vedi il rapporto fra jazz e giovani?
I giovani sanno affrontare bene qualsiasi tipo di musica, basta che gli venga presentata nel modo giusto. Nei miei corsi di storia del jazz e nelle conferenze cerco sempre di evidenziare il legame fra il jazz e il suo spesso disprezzato cugino, l’hip hop. Posso capire che alcuni puristi rifiutino di ammetterlo, però io sono cresciuto durante gli anni di esplosione dell’hip hop, e mi sembra innegabile. In più, ogni musicista felice della sua performance emana un’energia che rende l’audience molto più ricettiva. Guarda un concerto hip hop: l’artista salta, il pubblico salta. L’artista grida certe frasi, e pure il pubblico fa lo stesso. L’artista si veste in un certo modo e attira persone vestite in maniera simile. Guarda ora certi show jazz: l’artista chiude gli occhi durante certi pezzi, e il pubblico pure. L’artista bisbiglia nel microfono, e qualcuno nel pubblico parla bisbigliando. L’artista fa una presentazione cupa e un po’ malinconica di un pezzo, e il pubblico entra più facilmente in uno stato d’animo adatto. Questi sono esempi macroscopici, ma sottolineano tutti l’importanza della presentazione. E così quando suono mi preoccupo di fare musica divertente ed energica, perché voglio vedere la gente contenta e rilassata. Anche come direttore di un gruppo jazz preferisco un repertorio che consenta ai miei compagni di esibire la loro eccitazione sul palco: un sorriso o un grido di approvazione dopo un bell’assolo, l’incitamento reciproco, anche mosse sincronizzate o battere le mani. Il pubblico allora, indipendentemente da razza, sesso, età e classe sociale, abbassa la guardia e fa ciò che la gente sopra il palco gli suggerisce come “reazione socialmente accettabile” alla musica. Si diverte! In questo modo bambini, ragazzi e adulti si godono lo spettacolo allo stesso modo. Se è caduta la connessione fra pubblico giovanile e jazz, sta a noi musicisti ristabilirla dimostrando che non è solo impegnativo, ma pure coinvolgente ed emozionante.

Per finire, hai già pianificato un tour?
Ci sto lavorando! Passo così tanto tempo a suonare e registrare per altri che ne ho pochissimo da dedicare alla mia band. Vorrei che le cose iniziassero a cambiare dall’inizio del prossimo anno, vista l’attenzione suscitata in tutto il mondo dalla mia musica. Mi piacerebbe molto, a fine 2012, aver suonato almeno una volta in ogni continente in cui ‘Pivot’ è stato pubblicato. Per ora abbiamo avuto richieste da alcuni festival, sia qui in America che all’estero. Speriamo di poter capitalizzare sui festival per suonare altre date nelle rispettive zone, del resto è così che funziona!

(Intervista a cura di Negrodeath)

Melvin Jones: http://melvinjones.net/
Turnaround Records: http://www.turnaroundrecords.com/

Comments are closed.