FREE FALL JAZZ

Inizia sotto i migliori auspici  “Jazz al Parenti”, la manifestazione milanese incentrata sul cosiddetto “mainstream” sotto la direzione artistica di Gianni M. Gualberto, inaugurata domenica mattina con l’eccellente concerto del trio di Kenny Werner, che non ha minimamente tradito le attese, sciorinando musica improvvisata di classe, ispirata ed eseguita con grande perizia tecnica da musicisti estremamente affiatati. Peraltro, l’uso di certe etichette potrebbe persino non rendere giustizia e essere poco idoneo a descrivere la qualità dell’esibizione, che ha proposto nell’occasione una musica che si è rivelata assai più aggiornata di tante altre oggi molto acclamate, senza manifestare nel contempo analoghe pretenziose intenzioni.

Gli è che al termine “mainstream” si tende oggi impropriamente ad assegnare un implicito ed automatico significato di “tradizionale”, “conservatore”, “superato” o comunque di già sentito, secondo una idea, peraltro priva di reale fondamento, che il jazz segua un percorso evolutivo nel quale il “nuovo” debba in qualche modo negare “il vecchio”, proponendo uno schema che di fatto non ha riscontri nella tradizione storica e culturale dalla quale proviene quella musica improvvisata che di nome fa semplicemente “jazz”. Al contrario (e Kenny Werner ne è un significativo esempio), molta parte del “mainstream” continua oggi a mostrare quella fenomenale capacità di fagocitare e integrare entro di sé i linguaggi più diversi, aprendosi anche alle istanze innovative che man mano emergono nel tempo, senza mai rivelarsi dimentico della propria grandiosa tradizione. Poco si comprende dunque, se non il superficiale disinteresse, la generica sufficienza con la quale vengono spesso trattati musicisti di alto livello, come quelli ascoltati, e di cui diamo qui resoconto, da buona parte della critica e delle direzioni artistiche nazionali.

Sufficienza che fortunatamente non ha riguardato il pubblico dei buongustai e degli appassionati di lungo corso, che hanno sorprendentemente affollato l’accogliente teatro milanese sin dalla prima data in cartellone, manifestando alla fine grande apprezzamento per l’esibizione del trio.

Classe 1951, Kenny Werner con i fidi Joannes Weidenmuller al contrabbasso e Ari Hoenig alla batteria, ha dettato subito il clima espressivo ispirato del concerto, esordendo con una raffinata e rilassata versione di “With A Song in My Heart”. L’approccio agli standards di Werner si rivela per nulla scontato e routiniero. E’ piuttosto l’occasione di una rielaborazione originale e ponderata, sia sul piano delle enunciazioni tematiche, espresse con una specifica raffinata sensibilità melodica, molto lineare e attenta alle dinamiche, che in improvvisazione, ricca di coerenti e appropriati assemblaggi di materiali i più disparati, che vanno dal pianismo colto europeo a quello proprio del moderno piano jazz, dal blues allo swing, dal latin sino all’afrocubano, il tutto espresso dal trio con grande proprietà linguistica e senso ritmico, in termini strettamente musicali, senza cercare cioè certa spettacolarità strappa applausi, o l’esibizione di un eclettismo invadente e fine a se stesso, elementi riscontrabili in molte esibizioni pianistiche odierne in ambito jazzistico o pseudo tale.

Nel pianismo di Werner è peraltro difficile identificare specifiche influenze, contenendole un po’ tutte e nessuna al tempo stesso, manifestando una sintesi personale che comunque sta da qualche parte tra le colonne portanti del pianismo improvvisato contemporaneo, generalmente identificabile nel quartetto di nomi costituito da Mc Coy Tyner, Herbie Hancock, Chick Corea e Keith Jarrett con spruzzate dell’imprescindibile Thelonious Monk, senza comunque trascurare il pianismo antecedente, come quello di Bill Evans, con particolare riferimento all’uso dei block chords e al suo lirismo di fondo.

Il brano successivo si è rivelato una originale rielaborazione di una composizione di J.S. Bach, arricchita con gusto e in modo pertinente con un assemblaggio di materiali molto diversi tra loro, taluni anche sorprendenti per la distanza culturale e idiomatica dal genio compositivo del Cantor. In una lunga intro in piano solo, nella quale sono comparsi anche frammenti melodici di un noto standard quale “Taking A Chance On Love”, Werner sembra voler dare una piega “colta” al concerto, che invece nel  suo sviluppo improvvisativo successivo si sposta decisamente sul terreno ritmico e poliritmico, nel quale ha pure fatto la sua parte il brillante batterista, passando per lo swing, il latin e per finire addirittura sul ritmo afro-cubano del son montuno.

Il brano clou del concerto, dove il trio ha mostrato tutta la sua sofisticazione musicale e concreta  modernità, è stato “Who”, una composizione molto complessa ed elaborata, davvero stimolante per il continuo cambio di ritmo e di metrica, peculiarità peraltro ben nota del trio di Werner. Il brano, sviluppatosi in una sorta di improvvisazione collettiva organizzata, ha mostrato l’affiatamento raggiunto e il virtuosismo di tutti i musicisti in scena e la mutevolezza della musica, con il bassista a fare da ancoraggio indispensabile alla esplosione di fantasia ritmica dei compagni in fase solistica. E’ comparsa tra le altre anche una scansione ritmica rock che ha ricordato a tratti il Tony Williams del quintetto di Miles Davis a fine anni ’60.

I musicisti hanno mostrato di apprezzare il genere di platea composta e attenta presente al concerto, con Werner che si è sentito di proporre un paio di brani nei quali è emerso l’aspetto più dolorosamente lirico del suo pianismo e anche una chiara dedica per la giovane  figlia scomparsa, emotivamente coinvolgente ma forse di dubbia resa musicale. Chiusura del concerto con due bis che per certi versi si sono rivelati persino la parte migliore dell’esibizione concertistica: ”Jackson Five” un brano cangiante, ricco di pause a la Monk e dedicato a Jackson Pollock e una versione estremamente lineare ma davvero brillante di “Autumn Leaves”, pronta a smentire per l’ennesima volta chi pensa che certo materiale tematico sia ormai musicalmente esausto ai fini improvvisativi. Forse il problema nel jazz non sta nel “cosa” si suona, ma nel “come” lo si fa.
(Riccardo Facchi)

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[...] avuto modo di sentirlo dal vivo l’anno scorso al Teatro Parenti di Milano (qui la recensione) dove iniziò il concerto proprio col brano che sto per [...]