FREE FALL JAZZ

senti lì che suoni's Articles

Parlare di jazz. Non so quanto spesso vi capiti, ma a me praticamente mai. Ai miei amici non interessa, così devo rifugiarmi qui sull’interwebs, discorrere con Nico e Ildebrando (alias StepTb), coi pochissimi contatti su Facebook interessati, e poi basta, o giù di lì. Adesso immaginerete una profonda esternazione di cordoglio da parte mia, vero? Debbo coltivare la mia passione in solitudine, senza alcun contatto umano, soffocato dall’alienazione indotta dal digitale e la virtualizzazione dei rapporti, giusto? Una catastrofe. E invece, meno male che posso fare così. Perché se mi dovessi limitare a quel che sento e sento dire, il jazz sarebbe solo una noiosissima e blanda musica per rincoglioniti in disperato deficit da distinzione sociale. Non tutti, chiaramente, ma molti sì. E come si sia arrivati a questa situazione non lo so, perché la mia passione per il jazz l’ho vissuta senza sapere molto dell’evoluzione del pubblico italiano. Tuttavia, qualche ipotesi si può fare, delle osservazioni sul presente pure, e trarre conclusioni anche.

Fino agli ’60, il jazz era una roba tutta americana: nel senso che, se lo volevi suonare, suonavi come gli americani anche se eri del Madagascar o di Pontestazzemese. Poi sono nate le varie scuole nazionali. La vicenda del jazz italiano ha avuto una storia lunga che qua non c’interessa tratteggiare, se non nell’ultima fase. Fase coincidente con l’attuale e che vede un’ormai consolidata sinergia fra la frangia di pubblico colto-wannabe, quello che frequenta cinema, mostre, vernissage e degustazioni e giammai va a vedere un cinepanettone, e l’ambiente di chi il jazz lo produce e lo suona, che ha deciso di intercettare e spremere questo vasto bacino. (Continua a leggere)