FREE FALL JAZZ

piano che mi cascano le ulive's Articles

Il giudizio critico su Chick Corea è stato per decenni piuttosto ondivago, un po’ per pregiudizio ideologico, in altri casi per suoi oggettivi demeriti. Il personaggio, oltre il musicista, ha sicuramente manifestato nel corso della sua lunga carriera, tratti di eclettismo un po’ guascone e certamente qualche periodica furbesca scivolata nel kitsch, che forse ha avuto più a che vedere con motivazioni legate al profitto che all’arte musicale. Tuttavia, se oggi si dà uno sguardo più distaccato alla sua imponente discografia e alla sua opera compositiva, ci si rende conto che Corea è, assieme ai sostanzialmente coevi Mc Coy Tyner, Herbie Hancock e Keith Jarrett, uno dei pilastri su cui si reggono le linee guida del pianismo jazz contemporaneo. (Continua a leggere)

JD Allen torna nuovamente sulle nostre webpagine con un’intervista, si spera, interessante, a poco più di una settimana dalla recensione dell’eccellente ‘Grace’. Il sassofonista di Detroit è uno dei migliori musicisti dalla sua generazione, e pure il coraggio non gli manca: non tutti, forse, avrebbero messo da parte un trio così lodato e di (relativo) successo come il suo per la paura di essere entrato in una routine di lusso. JD ha preferito mettere da parte, per il momento, Gregg August (basso) e Rudy Royston (batteria) per concentrarsi su un gruppo e una musica completamente nuovi. Visti i risultati, non gli diremo certo di aver sbagliato! E quindi leggiamo volentieri le parole di questo musicista serio e simpatico, a tratti brusco, che non parla e non suona mai invano. (Continua a leggere)

Parlare di jazz. Non so quanto spesso vi capiti, ma a me praticamente mai. Ai miei amici non interessa, così devo rifugiarmi qui sull’interwebs, discorrere con Nico e Ildebrando (alias StepTb), coi pochissimi contatti su Facebook interessati, e poi basta, o giù di lì. Adesso immaginerete una profonda esternazione di cordoglio da parte mia, vero? Debbo coltivare la mia passione in solitudine, senza alcun contatto umano, soffocato dall’alienazione indotta dal digitale e la virtualizzazione dei rapporti, giusto? Una catastrofe. E invece, meno male che posso fare così. Perché se mi dovessi limitare a quel che sento e sento dire, il jazz sarebbe solo una noiosissima e blanda musica per rincoglioniti in disperato deficit da distinzione sociale. Non tutti, chiaramente, ma molti sì. E come si sia arrivati a questa situazione non lo so, perché la mia passione per il jazz l’ho vissuta senza sapere molto dell’evoluzione del pubblico italiano. Tuttavia, qualche ipotesi si può fare, delle osservazioni sul presente pure, e trarre conclusioni anche.

Fino agli ’60, il jazz era una roba tutta americana: nel senso che, se lo volevi suonare, suonavi come gli americani anche se eri del Madagascar o di Pontestazzemese. Poi sono nate le varie scuole nazionali. La vicenda del jazz italiano ha avuto una storia lunga che qua non c’interessa tratteggiare, se non nell’ultima fase. Fase coincidente con l’attuale e che vede un’ormai consolidata sinergia fra la frangia di pubblico colto-wannabe, quello che frequenta cinema, mostre, vernissage e degustazioni e giammai va a vedere un cinepanettone, e l’ambiente di chi il jazz lo produce e lo suona, che ha deciso di intercettare e spremere questo vasto bacino. (Continua a leggere)