FREE FALL JAZZ

Matana Roberts's Articles

Dopo i primi due entusiasmanti capitoli dell’opera ‘Coin Coin’, Matana Roberts decide di attuare un importante (e tutto sommato, imprevisto) cambio di rotta stilistico per la registrazione del terzo episodio della saga.

Fin dai primi secondi, l’aspetto più evidente nella musica di ‘River Run Thee’ (questo è il titolo scelto per il nuovo album) è infatti la lontananza dal linguaggio canonico del jazz, che nei due precedenti ed esaltanti lavori costituiva invece l’elemento fondante e principale da cui la Roberts ripartiva per l’elaborazione della sua poetica personale. Non vi sono più ensemble più o meno vasti a supportare la musicista: per tutta la durata del disco si ascoltano solo qualche field recording, la voce della Roberts e il suo sassofono, comunque sottoposto a un processo di metamorfosi e di snaturalizzazione che rende solo una minoranza dei suoi interventi riconducibili a un approccio classico allo strumento (il suo suono viene alimentato da mini synth, oppure acquista riverbero naturale grazie all’utilizzo del rivestimento rotto di un pianoforte, o ancora viene registrato piazzando i microfoni in particolari angoli della stanza per coglierne diverse sfumature). (Continua a leggere)

Sul pur ottimo ‘Coin Coin Part One’ avevamo espresso qualche perplessità, soprattutto per una sintesi a tratti trascurata in favore dell’integrità dell’ambizioso concept, presentato peraltro come opera in ben dodici atti (che, lavorando di accetta, possiamo riassumere come incentrata sulla schiavitù e la condizione afroamericana nell’anteguerra, argomento che l’autrice approfondisce con tanto di ricerche nel proprio albero genealogico). Per il secondo volume l’altosassofonista di Chicago decide di cambiare le carte in tavola quasi a tutti i livelli, dimostrando ancora una volta di non amare le ripetizioni. Non si tratta di un mutamento di rotta fine a sé stesso: le frecce al proprio arco sono tante e le idee sono abbastanza fresche da giustificare la sterzata. (Continua a leggere)

L’approdo su Constellation e il conseguente “sdoganamento” di Matana Roberts presso un pubblico che normalmente mastica poco jazz tracciano attorno a ‘Coin Coin’ un inevitabile alone di diffidenza. Si tratta però di un matrimonio che stupisce solo i meno attenti, dato che l’etichetta canadese in passato ha già dimostrato di saper guardare oltre gli steccati del post rock (un esempio per tutti: l’oscuro folk di Elizabeth Anka Vajagic) e la stessa Roberts ha più volte collaborato con artisti del suo roster, dai Silver Mt. Zion (o come volete chiamarli) ai Godspeed You! Black Emperor di ‘Yanqui UXO’.

La sassofonista di Chicago (ormai al quinto lavoro da leader) si presenta con un ambizioso concept sulla schiavitù e la condizione afroamericana nell’anteguerra, argomento approfondito con tanto di ricerche nel proprio albero genealogico e scandito negli 8 brani in programma soprattutto attraverso interventi di spoken word piuttosto che da vere e proprie parti vocali. Altrettanto particolare è la musica: a capo di un ensemble di 15 elementi (sassofoni, trombe, violini, bassi, violoncello, chitarra, piano, batteria e persino un duduk), Matana prova a spaziare in lungo e in largo tra rimandi e citazioni, partendo da una sorta di free jazz “contaminato” che vede nella Art Ensemble Of Chicago dei numi tutelari quasi inevitabili, vista la comune provenienza. (Continua a leggere)