FREE FALL JAZZ

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Perché raccomandare un libro uscito oltre 40 anni fa?. Semplice perché in una qualsiasi libreria jazz questo è ancora un valido strumento di studio sulla situazione che c’era (o che c’è ancora) del jazz in Italia. Inoltre il taglio con il quale è stato scritto , come testimone e non come critico, da parte di Cogno dimostra ancora una freschezza che molti dei libri attuali sul jazz non hanno. E’ semplice, diretto va al cuore delle cose. “È un racconto giornalistico formato dalle testimonianze di musicisti, critici, attori, studenti, tutte le piastre di un mosaico alternante in modo solo apparentemente casuale, una sequenza che del jazz ha il ritmo e la visceralità”. Nel libro di Cogno i protagonisti coprono uno spettro vario ed ampio delle tendenze musicali del 1970: Enrico Intra, Giorgio Gaslini, Eraldo Volonté, Enrico Rava, Franco D’Andrea, Alberto Rodriguez, Giorgio Azzolini, Franco Tonani, Giovanni Tommaso, Franco Pecori, Giorgio Buratti, Claudio Lo Cascio e Mario Schiano. (Continua a leggere)

La storia del jazz è stata raccontata moltissime volte, ormai. I libri sull’argomento si sprecano, più o meno autorevoli, più o meno validi, ma tutti concordi su un assunto di base: che il jazz sia nato in America, che lì abbia articolato la sua storia e che ancora lì abbia il suo maggior serbatoio di talento. E se così non fosse? E’ questa la domanda che si è posto, unico al mondo, Roberto Favollo, giornalista indipendente e musicologo, al momento di scrivere ‘Jazz: Una Storia Segreta’. Partendo dall’assunto che la storia del jazz fosse, nel migliore dei casi, largamente incompleta e nel peggiore una pura e semplice falsificazione per celare interessi occulti, Favollo si è lanciato in una ricerca durata anni in giro per le biblioteche di tutto il mondo, selezionando con attenzione meticolosa tutte le fonti in accordo con la sua teoria, in rispettoso ossequio alla metodologia di Giulietto Chiesa, “maestro spirituale” cui è dedicato il libro. Il primo mito sfatato è quello di Buddy Bolden, mito cui potevano credere solo gli americani e in particolare gli afroamericani che avevano bisogno di qualche idolo, e prova ne sia il fatto che non ne esistano registrazioni, ma poi si va oltre, con testimonianze sparse nel tempo e nello spazio che confutano irrevocabilmente la supposta natura profondamente americana del jazz. (Continua a leggere)

Esce oggi, 22 dicembre 2014, il libro ‘Quella Tromba di Latta del Confine Orientale Italiano’, edito dalla triestina Luglio Editore. Scritto da Luigi Maria Guicciardi, è la biografia del trombettista e compositore istriano Mario Fragiacomo. (Continua a leggere)

L’epopea della Blue Note è stata ampiamente sviscerata da un ottimo libro di Richard Cook di cui abbiamo già parlato su queste pagine. Storia di questi giorni è invece l’uscita di ‘Blue Note: Uncompromising Expression’, mastodontico tomo di 400 pagine che si prefigge di analizzare uno degli aspetti più importanti tra quelli che hanno contribuito a trasformare in leggenda l’etichetta fondata da Alfred Lion: le grafiche delle sue copertine. L’autore è lo scozzese Richard Havers, che in passato ha già raccontato le gesta di un’altra etichetta storica del jazz americano, la Verve, nel volume ‘Verve: The Sound Of America’. Il libro esce, al momento solo in inglese, per Thames and Hudson e dalle nostre parti è disponibile (seppur costosetto) attraverso il circuito Amazon. In potenza sembra un ottimo complemento al libro di Cook, ma sarà nostra premura dirvi di più se/quando ce l’avremo tra le mani. Intanto, ci sembra buona idea proporvi la traduzione in italiano di un articolo in tema apparso qualche giorno fa in Inghilterra sul Telegraph (autore Martin Gayford).  (Continua a leggere)

BAM è l’acronimo di Black American Music secondo la definizione del trombettista Nicholas Payton: per lui il termine BAM dovrebbe sostituire jazz, perché in un momento in cui l’identità di questa musica viene stiracchiata a destra e a manca senza gran rispetto, bisogna rimettere in evidenza la cultura originale e insostituibile che gli ha dato vita. Nicola Gaeta, medico e giornalista, è forse meno radicale sulla questione, ma condivide con Payton la convinzione che il jazz sia musica americana e in cui è centrale il ruolo delle concezioni musicali africano-americane per articolarne estetica e storia. Da lì l’avventuroso impulso di passare un mese a New York per documentare il qui ed ora del jazz. L’autore parla di e con molti dei nomi che qui dentro abbiamo trattato a più riprese (Orrin Evans, Jonathan Blake, JD Allen, Stacy Dillard, Jaleel Shaw, Ambrose Akinmusire, solo per dirne qualcuno), ma non mancano italiani trapiantati in America e ad adetti ai lavori di vario tipo, fra fotografi, impresari e proprietari di club. (Continua a leggere)

Uscito ormai dieci anni fa, ‘New Thing’ è una sortita in solitario di Wu Ming 1, esponente del noto collettivo Wu Ming. Non si tratta comunque di un saggio musicale, quanto piuttosto di un romanzo ambientato a New York durante la tumultuosa seconda metà degli anni ’60, con le contestazioni, gli scontri e la musica del caso – nello specifico, il free jazz. Assemblato come collage di articoli di giornali, stralci documentaristici e spezzoni d’intervista, il libro parla della vicenda del Figlio di Whiteman, un assassino di musicisti free. La polizia brancola nel buio, solo una giornalista un po’ hippie del Brooklinyte collega i delitti fra di loro ipotizzando una mano comune. Qua e là, a spezzare il flusso della narrazione, troviamo i pensieri di un John Coltrane prossimo alla fine. Descritto così, ‘New Thing’ potrebbe sembrare anche interessante. Purtroppo i nodi vengono rapidamente al pettine dopo sole poche pagine. Intrecciare fatti realmente avvenuti con la finzione e utilizzare uno stile “multimediale” non è una novità, ma senza pretendere le vette di James Ellroy e John Dos Passos, è almeno lecito sperare in qualcosa di meno infantile e stereotipato. (Continua a leggere)

Tra le strenne natalizie arrivate in libreria durante le ultime festività non poteva mancare qualcosa che stuzzicasse l’appetito degli appassionati di jazz e dintorni. ‘Miles Davis – La Storia Illustrata’ sin dal titolo fa capire si tratti di qualcosa di bello innanzitutto a vedersi, e così è: un grande coffee table book in cui la parabola artistica dello storico trombettista viene rievocata attraverso immagini di alta qualità che comprendono anche un centinaio di scatti inediti recuperati dagli archivi dei fotografi più noti.

Proprio la parte grafica è il piatto forte, ma di sicuro non l’unico motivo d’interesse: c’è spazio anche per un’ampia trattazione biografica. La carriera di Miles viene divisa in una serie di macrosezioni facilmente individuabili, con la narrazione scandita soprattutto attingendo alla ben nota autobiografia e analizzando i contenuti dello sterminato lascito discografico, almeno per quanto riguarda gli album più significativi. (Continua a leggere)

Per anni, l’unica storia del jazz scritta in Italia è stata quella di Arrigo Polillo. Un testo ormai diventato classico e sempre efficace nella divulgazione del patrimonio jazzistico, tuttavia fermo agli sviluppi e alla prospettiva storica di trent’anni fa (per ovvi motivi). Il libro di Stefano Zenni viene dunque ad aggiornare la storiografia jazz italiana coprendo l’intera storia di questa musica, dal proto jazz al gran numero di tendenze dei nostri anni, attraversando nel frattempo New Orleans style, swing era, bebop, cool, hard bop, post-bop, free, improvvisazione radicale e così via. Rispetto alla maggior parte delle storie del jazz viene meno la corrispondenza fra capitolo del libro e periodo musicale, ovvero la classica successione in cui ogni nuova scena sembra cancellare la precedente; più realisticamente, il jazz si ramifica in tendenze che procedono in parallelo. Così, giustamente, negli anni ’50 e ’60 non ci sono solo hard bop, post bop e free, ma pure gli eccellenti album realizzati da Coleman Hawkins, la continua evoluzione di Duke Ellington eccetera eccetera. Allo stesso modo, negli anni ’60 molti musicisti si ponevano il problema di uscire dalla gabbia del chorus:  Ornette Coleman, Miles Davis, Charles Mingus e la scuola Blue Note davano diverse soluzioni autonome e in contemporanea. (Continua a leggere)

Da un’idea della nostra Dinahrose, inauguriamo oggi una nuova rubrica dalla cadenza regolarmente variabile (insomma, ormai ci conoscete). Oggetto della suddetta saranno i volumi, quelli misurati in pagine piuttosto che decibel, imparentati in maniera più o meno diretta con la “nostra” musica. Senza andare (ancora) a pescare chissà quale tomo dimenticato da tutti i cataloghi, dedichiamo questa prima puntata a un titolo acquistabile senza patemi in tutte le librerie. In realtà,nel caso specifico, da leggere c’è davvero poco: ‘A memoria di jazz’ è infatti un lavoro soprattutto fotografico. Hervé Gloaguen, il suo autore, è un fotogiornalista francese appassionato di musica, che ha avuto la fortuna di svolgere la sua gavetta, tra Parigi e New Orleans, negli anni ’60, periodo che gli ha permesso di assistere dal vivo, pellicola alla mano, alle esibizioni di praticamente tutti i più grandi interpreti di jazz. Oggi sessanta (numero a caso?) di quegli scatti sono raccolti in questo volumetto rigorosamente in bianco e nero e assolutamente spettacolare a vedersi: formato A5 (circa), copertina rigida, carta patinata di ottimo spessore.

Il periodo cruciale ha permesso all’autore di incrociare musicisti appartenenti a generazioni musicali differenti, e dunque tramite i personaggi raffigurati risulta possibile ripercorrere, seppure a grandi linee, la storia e l’evoluzione di un intero genere (Continua a leggere)