FREE FALL JAZZ

John Zorn's Articles

Riprendiamo le trasmissioni con questo bel concerto del quartetto acustico di John Zorn, Masada, colto otto anni fa sul palco del Jazz Festival di Vienna.


Le riprese professionali al Jazz In Marciac Festival sono sempre una goduria. Non fa esclusione questo concerto di John Zorn con la band dei Dreamers, ovvero musicisti del giro Electric Masada, fra cui vecchie volpi come Marc Ribot e Joey Baron (“Vin Diesel playing drum?” dice un commentatore, e in effetti…) da anni alla corte del sassofonista newyorkese. Enjoy!


Il primo lutto del 2013 è di quelli inaspettati. A soli 65 anni, ma dopo – scopro adesso – lunga malattia, se ne va Butch Morris, cornettista, ma, soprattutto, l’uomo della “conducted improvisation” (battezzata infine “conduction”).

Per parlare a fondo dell’idea che lo ha reso famoso sarebbe necessario un intero articolo a parte, ma a grandi linee funzionava così: di fronte a un ensemble di musicisti, Morris, proprio come un direttore d’orchestra, ma senza alcuno spartito, ne dirigeva l’assoluta improvvisazione. Dava il là indicando un tempo, dopodiché lasciava gli strumentisti liberi di creare in quel contesto e man mano, grazie a una serie di segni convenzionali, gli indicava la strada da seguire: ripetere una parte, ricordare una melodia da riproporre più avanti, aumentare o abbassare l’intensità e via così.

Le improvvisazioni traevano linfa non solo dal jazz, ma anche dalla musica classica e da quella moderna: in più occasioni si è ritrovato a condurre orchestre classiche, ma anche collettivi con DJ dediti allo scratching o suoni elettronici in generale. Tra i musicisti passati “sotto la sua bacchetta”, si contano John Zorn e il sottovalutato Frank Lowe (altro nome su cui prima o poi toccherà tornare).

 

La sempre ottima Radio 3 continua a non sbagliare un colpo coi suoi concerti. Questa sera (3 Aprile), a partire dalle 20:30, è la volta di Wayne Horvitz col suo New Quartet (che si avvale di contralto, tenore e batteria, oltre ovviamente a piano e tastiere), catturati in quel di New York il 9 Settembre scorso in occasione del festival Crosscurrent 3. Per gli alieni all’ascolto (pochi, speriamo), vale la pena ricordare che si tratta di uno dei fedelissimi della cricca di Zorn, parte anche dei seminali Naked City. Se non vi basta, c’è sempre l’amico Google.

Anche questa settimana però l’appuntamento è doppio, e subito dopo l’appuntamento è altrettanto interessante: un’esibizione al jazz festival di Saalfelden (Austria, 27 Agosto 2011) del progetto Electric Willie, collettivo che omaggia Willie Dixon composto, tra gli altri, dal chitarrista Elliott Sharp, dal figlio d’arte Eric Mingus (voce) e dall’immenso Melvin Gibbs (Defunkt, Rollins Band) al basso.

Al solito, il tutto è disponibile in AM/FM, tramite decoder digitale terrestre o in streaming sul sito. Se volete vedere la Champions League, escogitate qualche modo per registrare.

In potenza, Okkyung Lee potrebbe suscitare forse più interesse tra gli affezionati di nomi dalle influenze grossomodo neo classiche (diciamo dai Dark Sanctuary agli Elend, finanche Amber Asylum) piuttosto che tra chi segue gli artisti di cui solete (speriamo) leggere su queste pagine, eppure ‘Noisy Love Songs’ è stato lanciato e promosso soprattutto nel circuito jazz, “colpa” della parentela (in senso figurato) che unisce la violoncellista coreana col suo mentore John Zorn, che ne patrocina le uscite tramite la Tzadik. Rispetto ai nomi citati, quello di Okkyung è un neoclassicismo dai toni certamente più scarni e meno elaborati, musica da camera che si sposa con umori downtempo (‘Roundabout’) e richiami ai Dead Can Dance più “esotici” (l’ottima ‘King’), momenti, questi ultimi, in cui il sestetto (che oltre al violoncello si avvale di violino, tromba, piano, basso, percussioni ed elettronica) sembra procedere al massimo delle proprie potenzialità. (Continua a leggere)

Non si faccia l’errore di cassare ‘The Veil’ solo come “l’ennesimo disco in cui sbuca Nels Cline”.  Stare dietro alle sue sterminate attività può diventare frustrante, non v’è dubbio (ne sanno qualcosa quelli del suo sito ufficiale, che hanno smesso di tenere il conto della discografia ormai nel 2005), ma se volete ascoltare solo una delle sue produzioni recenti (possiamo dirvi che l’uomo ha partecipato a circa una decina di titoli di vario genere solo nell’ultimo biennio), fate che sia questa. L’occasione è una manciata di serate, circa giugno 2009, presso The Stone (il locale newyorkese diretto dal buon Zorn), per le quali il chitarrista si circonda di brava gente: nello specifico, Tim Berne al contralto e Jim Black alla batteria. L’intesa e l’interplay lasciano letteralmente senza fiato:  i tre si cercano, si trovano, si punzecchiano e si cedono vicendevolmente la scena con la naturalezza propria dei grandi. Stilisticamente si parte con quel che ci si aspetterebbe: sguazzare liberi (appunto) tra free e avantgarde per circa un’ora di improvvisazione collettiva (seppur divisa in nove temi più o meno ben distinti) certamente figlia del citato Zorn, ma che nei momenti più “classici” rievoca il fantasma di Ayler (e a tratti anche il suo “pargolo degenere” Gayle) e minuto dopo minuto si svela assolutamente prodiga di sfumature e contaminazioni. (Continua a leggere)