Il primo lutto del 2013 è di quelli inaspettati. A soli 65 anni, ma dopo – scopro adesso – lunga malattia, se ne va Butch Morris, cornettista, ma, soprattutto, l’uomo della “conducted improvisation” (battezzata infine “conduction”).
Per parlare a fondo dell’idea che lo ha reso famoso sarebbe necessario un intero articolo a parte, ma a grandi linee funzionava così: di fronte a un ensemble di musicisti, Morris, proprio come un direttore d’orchestra, ma senza alcuno spartito, ne dirigeva l’assoluta improvvisazione. Dava il là indicando un tempo, dopodiché lasciava gli strumentisti liberi di creare in quel contesto e man mano, grazie a una serie di segni convenzionali, gli indicava la strada da seguire: ripetere una parte, ricordare una melodia da riproporre più avanti, aumentare o abbassare l’intensità e via così.
Le improvvisazioni traevano linfa non solo dal jazz, ma anche dalla musica classica e da quella moderna: in più occasioni si è ritrovato a condurre orchestre classiche, ma anche collettivi con DJ dediti allo scratching o suoni elettronici in generale. Tra i musicisti passati “sotto la sua bacchetta”, si contano John Zorn e il sottovalutato Frank Lowe (altro nome su cui prima o poi toccherà tornare).
La musica di questo CD è imperniata su ‘Il colore del melograno’ (1968, 73 min.), un lavoro del regista Sergej Paradzanov, georgiano di origine armena. L’occasione di ascoltare dal vivo il trio (Gianni Mimmo, soprano; Cristiano Calcagnile, batteria e percussioni; Xavier Iriondo al “mahi metak” ed elettroniche) durante il Jazz Groove al Candiani di Mestre mi ha permesso di seguire il film, senza sonoro, che descrive in uno stile particolarissimo e antirealistico (le immagini mostrano, ma non raccontano, alludono, ma non dicono) la vita del monaco-trovatore armeno Sayat Nova (vissuto nel XVIII secolo) dall’infanzia al ritiro nel monastero, attraverso una serie di quadri statici e stilizzati, nei quali lo spettatore deve immergersi, come in un dipinto o in una musica. Come lo definisce Gianni Mimmo: “Si tratta di una rilettura profonda e reciproca fra le due parti. Immagini con forza drammatica trovano nella musica una sorta di traduzione, di conduzione, di esplicazione ad altro livello. Come una mitologia guardata alle spalle, invece che dalla prospettiva post moderna, come una spinta pervasiva e un abbraccio totale”. (Continua a leggere)
È strano iniziare il 2012 con la recensione di un disco uscito più o meno alla fine del 2010? Forse. Ma se ci seguite saprete bene che qui non ci formalizziamo quando si tratta di consigliare un bel disco che per un motivo o per l’altro potreste aver perso. Di ‘Beneath Tones Floor’ in effetti non si è parlato tantissimo ed è un vero peccato, non solo per la qualità della musica, ma anche per premiare l’ottimo lavoro della No Business, attiva etichetta lituana con un occhio di riguardo per l’avantgarde che ha in catalogo più d’una proposta interessante.
L’inedito trio Thomas / Sirone / Wimberly poi stuzzica per tutta una serie di motivi: innanzitutto geograficamente, vista l’unione tra una sezione ritmica tipicamente east coast e un fiatista di stanza a L.A. come Oluyemi, ma anche in veste “documentaristica”, trattandosi con ogni probabilità dell’ultima incisione di Sirone in terra americana (i brani risalgono infatti al 2008, circa un anno prima della scomparsa del bassista). La musica si muove nei territori che ci si aspetterebbero dai nomi coinvolti, ossia un jazz privo di strutture formali e completamente devoto all’improvvisazione. (Continua a leggere)