FREE FALL JAZZ

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Ne abbiamo parlato spesso: gente che si trova a un punto della carriera (artistica ma non necessariamente musicale) più o meno morto, e allora tenta la fatidica carta del disco jazz per “rifarsi una verginità”. Qualche volta la mossa riesce bene – penso a Lee Aaron o a Marla Gibbs – altre volte non brilla, ma neanche fa troppi danni (come il disco di Molly Ringwald di cui abbiamo parlato di recente), ma nella maggior parte dei casi ci troviamo davanti a schifezze senza possibilità di redenzione (non ultimo il buon Joe Jackson che si avventa sulla carcassa di Ellington). È sulla scia di questi che andiamo a ripescare dal passato recente un’iniziativa analoga come ‘Passing Strangers’.

La carriera di Tony Hadley comunque, almeno quella solista dopo i fantastilioni di copie venduti con gli Spandau Ballet, più che a un punto morto non era mai decollata: dell’uscita di ‘The State Of Play’, l’esordio in proprio, se ne accorse giusto qualcuno in Italia (paese dove, strano ma vero, gente come Spandau e Duran ha continuato a mantenere uno zoccolo durissimo anche quando il resto del mondo provava a seppellirli nell’oblio delle vecchie glorie con malcelato imbarazzo). (Continua a leggere)

Importante operazione filologica della newyorkese Upfront, che recupera, come facilmente intuibile dal titolo, un lungo set registrato al Piccadilly Club di Newark (New Jersey) nel 1953: si tratta con ogni probabilità delle più vecchie testimonianze esistenti di Hank Mobley in versione leader. In quel periodo il sassofonista newyorkese era infatti impegnato soprattutto a “farsi le ossa” accompagnando Max Roach (e, poco dopo, anche Dizzy Gillespie e Horace Silver), l’esordio in proprio non sarebbe arrivato prima di un paio d’anni. La formazione è per l’occasione un quintetto con una manciata di nomi che pure proveranno a dire la loro nell’imminente esplosione hard bop: il pianista Walter Davis Jr (che piazzerà un ottimo album da leader su Blue Note), la meteora Jimmy Schenck al basso (un paio di gettoni con Max Roach e Joe Gordon) e il batterista Charlie Persip, più longevo, che riceverà crediti su decine di album. Unico “fatto e finito” della combriccola è infine il trombonista Bennie Green, dagli anni ‘40 al servizio di Earl Hines nonché già avviato a una carriera da leader che, tra Prestige e Blue Note, regalerà più di un momento degno di nota (e speriamo di riparlarvene, ovviamente). (Continua a leggere)